In darkness

«Ricordo che la gente del paesino ci guardava – racconta Annette Muller.
Ci guardava con lo stesso disgusto che anch’io avevo provato. Dovevamo puzzare. Eravamo pelati, coperti di pustole. Vidi i volti disgustati delle persone, come quelli di alcuni quando vedono un senzatetto nella metropolitana, sporco, che dorme su una panchina. Sembrava che non fossimo più umani».
La metamorfosi è compiuta. Nel giro di pochi giorni il Terzo Reich ha forgiato il «suo» ebreo. Non esisteva prima, se non nelle teorizzazioni della razza che avevano riempito di parole i manifesti, poi, con un tocco crudele di bacchetta, eccolo qui.
Prima c’era un bimbo biondo e bellissimo. Giocava coi trenini e mangiava croissant al cioccolato, la mattina, quando la mamma glieli portava fragranti di forno. È bastata appena una settimana in un campo di transito, da solo, a scegliere tra i fili d’erba quello buono da mangiare, ed ecco che quel piccolo è diventato cosa di cui provare disgusto. Cosa che disgusta lui per primo.
Annette parla del campo di Beaune-La-Roland, in queste poche frasi lapidarie. Parla del campo dei bambini, quello che era rimasto a badare a se stesso quando i genitori erano stati fatti salire su un treno per Auschwitz.
Il senso della Shoah lo condensa in una crisi di identità: prima ero una bambina, sono diventata un animale. E forse quell’animale c’era già prima, forse non me n’ero accorta, quando, a sera, giocavo con le bambole.
L’orrore più angosciante della Shoah, quello che sta sulla porta delle docce, è stato nella capacità del Terzo Reich di forgiare il suo nemico, di costruirne a tavolino l’immagine disgustosa, abietta e lercia. L’orrore è stato anche nella capacità di istillare nelle vittime il dubbio che quell’epurazione, forse, aveva un senso. Perché a guardare la propria immagine riflessa nelle pozzanghere si provava, appunto, ribrezzo.
I film che raccontano la Shoah spesso cadono nel bisogno di romanticismo e nell’esaltazione sacrificale della vittima. Sono film che parlano ancora di Olocausto e non di annientamento, né di catastrofe. Sono film che non scendono nell’inferno, forse perché l’inferno non è, in fondo, da prima serata televisiva.
Per raccontare l’inenarrabile scelgono il terreno franco delle contrapposizioni manichee: il tedesco con le sue urla gutturali da una parte, l’ebreo dall’altra, fiaccato dal dolore e dalla fatica. Tutto il grigio che sta in mezzo - o, per dirla con Beckett che di inenarrabile sapeva qualcosa, il nero chiaro - lo si riserva, spesso alle comparse. Come quell’ebreo ne Il pianista che, dopo aver fatto cadere la zuppa che aveva tentato di rubare a una vecchietta, la mangiava raccogliendola da terra direttamente con la bocca, mentre la derubata lo picchiava stancamente con un pianto che ci si strozza in gola.
Queste scene ha prodotto la Shoah, questo orrore ha reso quotidiano. Un disgusto di cui non vogliamo sentir niente, che ci disturba ancora. Preferiamo l’anestesia locale di film sui giusti, o quella quasi totale di film come La vita è bella che l’orrore lo chiude tutto in una sola inquadratura, nottetempo e con la nebbia per di più, mentre il bambino dorme un sonno di fantascienza. Perché che un piccolo passi un giorno dentro un campo senza mai vedere un morto è come un asino che vola.
Così all’uscita di In darkness ci colpiscono dapprima i ritardi con cui l’Italia, da sempre, si confronta con l’orrore. Candidato all’Oscar lo scorso anno, il film esce dopo undici mesi di silenzio. In poche copie, per carità. Consigliato per le scuole, ma non troppo perché le immagini sono crude.
In realtà quel che blocca o che frena il film, nel contesto italiano più che altrove, è che si tratta di un film che non concede assoluzioni.
Racconta di ebrei che per scampare ai rastrellamenti di Lvov, si nascondo, per quattordici mesi, nelle fogne. Condividono la loro casa provvisoria con i ratti e gli escrementi. E in quel mondo cui li hanno costretti l’abominio di alcuni e l’indifferenza di molti, diventano a loro volta anche loro un po’ ratti e un po’ escrementi. Perché, c’è poco da fare, noi uomini diventiamo sempre come l’ambiente che abitiamo. Questa metamorfosi kafkiana ci dà fastidio. Questo vedere delle vittime verso cui è difficile provare immediata empatia ci rende difficile prendere la classica posizione della prima serata televisiva. Non riusciamo a sentirci buoni di fronte alle immagini del film: è questa la cosa che più gli rimprovererà la nostra Italia un po’ bigotta.
Così piovono di certo attestati di stima per il rigore della regia, per la scelta radicale di stare nelle fogne per il 70% del racconto e di non concedere reali boccate d’aria neanche quando si sta su, ma non si va oltre questo.
E, invece, il film è un ritratto della nostra anima nera di spettatori. È un pugno nello stomaco nelle nostre coscienze rese indifferenti, quasi, dalla cadenza annuale della ricorrenza che oggi ritorna. Ed è come essere di nuovo in quella scena dei bambini che, in colonna, marciavano nel paesino dove ognuno si affacciava alla finestra, guardando con disgusto.
Ma solo così si può marcare la differenza tra il giusto e l’indifferente. Ci sentivamo tutti commossi quando Oskar Schindler, piangendo, guardava le cose che non aveva ancora venduto e pensava: “Con queste avrei potuto comprare un’altra vita!” ed è una commozione buona e giusta, ma rassicurante e subdola, da persona che se non altro aveva i soldi per pagarsi il biglietto del cinema. C’è ben altra retorica nel momento finale di In darkness quando Socha, fatte salire le persone che ha salvato in superficie, esclama “I miei ebrei” e noi quasi non ce ne accorgiamo. L’anelito di umanità, qui, non reclama una scena madre, ma se ne sta nelle pieghe del racconto: piccolo raggio di sole che filtra comunque attraverso le grate di una fogna. Perché, ci dice la Holland, le cose non sono poi cambiate tanto da ieri, perché ancora siamo ben capaci di punirci l’un l’altro senza bisogno dell’aiuto di Dio.
E prima di storcere il naso di fronte alla crudezza delle scene che vanno guardate fino in fondo per tastare a qual livello sta il nostro grado di umanità, prima di fare come gli abitanti del paesino al passaggio dei bambini, dovremmo tenere in considerazione il fatto che il cinema, per quanto potente, ci dà l’immagine di quell’orrore, ma la cosa peggiore la tiene fuori campo. Non può farcene sentire la terribile, insopportabile puzza.
(In darkness); Regia: Agnieszka Holland; sceneggiatura: David F. Shamoon; fotografia: Jolanta Dylewska; montaggio: Mike Czarnecki; musica: Antoni Lazarkiewicz; interpreti: Robert Wieckiewicz, Benno Fürmann, Agnieszka Grochowska, Maria Schrader; produzione: SCHMIDTzKATZE Filmkollektiv, Studio Filmowe Zebra, The Film Works; distribuzione: Good Film; orgine: Germania, Francia, Polonia, 2011; durata: 145’
