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In The Cut

Pubblicato il 18 dicembre 2003 da Fabrizio Croce


In The Cut

La visione dell’ultimo film di Jane Campion provoca un disturbante, quasi irritante turbamento.Questa è l’unica certezza con la quale si esce alla fine della proiezione di In the cut, ultimo e fin troppo chiacchierato e annunciato lavoro della cineasta neozelandese. Il vero problema non è comunque l’irritazione e il turbamento, visto che Jane, fin dai suoi esordi, ci ha abituati a laceranti cortocircuiti tra immaginazione e realtà, pulsioni primordiali e indottrinamenti sociali, percezione soggettiva dell’altro da sé e manifestazione sensuale del mondo esterno. Sweetie, Janet Frame, Ada, Ruth sono stati tutti nuclei, punti fisi, cardini intorno a cui è ruotato il mondo estetico delle immagini della Campion, un mondo basato sulla dialettica dentro/fuori. Forse questo è il primo motivo di turbamento: In the cut è un film che esiste solo “Dentro”, come recita il titolo italiano del romanzo di Susanna Moore da cui prende il via. La New York nella quale si muove Frannie, insegnante di letteratura che crede di poter sublimare nella poesia le pulsioni della carne, è una città distorta, frammentata, schizofrenica nel suo dividersi tra oscurità senza fondo e squarci di luce sparata, tempeste di petali e piogge notturne. Non c’è soluzione di continuità, una separazione netta, un conflitto tra questi aspetti contrastanti, semplicemente si sovrappongono, si inseguono, uno è il riflesso dell’altro, entrambi solo la stessa cosa. Ma, e qui sta il motivo dell’irritazione, non si tratta affatto di un parto della mente della protagonista trasformato in una lunga soggettiva libera indiretta. La Campion si spinge ben oltre, anche oltre ciò che poteva fare la Moore con la parola scritta: sceglie il punto di vista interno della Vagina, concepita come ultimo e supremo baluardo di un inconscio femminile che, una volta lacerato, produce l’immaginario rimosso e inesplorato dei sensi. La grande quantità di sangue con cui uccide il serial killer che abita il mondo di Frannie, è lo scorrere in eccesso del flusso mestruale che provoca perdita di controllo e assenza di visione prospettica dell’esterno; l’insistenza sull’analità dei rapporti sessuali (la fellatio spiata da Frannie, ma anche il primo incontro fisico con Malloy, il poliziotto che la protegge e al tempo stesso l’assedia con brutale sensualità) riporta al valore della Vagina come bocca, apertura, foro d’ingresso dell’intimità del corpo; il sordido locale di striptease dove abita la sorella di Frannie è la proiezione iconografica che si genera nella visceralità del Desiderio e nell’annullamento dei freni inibitori, facendo amplio uso della retorica di un apparato visivo fondato sui paradigmi della voluttà, della morbosità, della volgarità. Non solo guardare nel pozzo oscuro della femminilità, ma raschiare il fondo con una crudeltà che diventa spietatezza, senza nessun tipo di riscatto romantico. Nessun romanticismo nell’evocazione dell’incontro dei genitori di Frannie sul ghiaccio, girato come una comica del passato, come un ricordo alienante e ossessivo attraversato dal sangue e dalla mutazione. Nessun romanticismo in una Meg Ryan scorticata nella pelle opaca, segnata, vulnerabile e corruttibile, rovesciata dall’intaccabile esteriorità della sua immagine glamour dentro la deperibilità e la precarietà di un antro mostruoso.

[dicembre 2003]

Regia: Jane Campion; sceneggiatura: Jane Campion e Susanna Moore dal romanzo Dentro di Susanna Moore; fotografia: Dion Beebe; montaggio: Alexander de Franceschi; musica: Hilmar Orn Hilmarsson; interpreti: Meg Ryan, Mark Ruffalo, Jennifer Jason Leigh, Nick Damici, Sharrieff Pugh, Sunrise Coigney, Michael Nuccio; produzione: Nicole Kidman e Laurie Parker; origine: USA 2003; ditribuzione: Nexo

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