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Inch’allah - Panorama

Pubblicato il 14 febbraio 2013 da Matteo Galli

VOTO:

Inch'allah - Panorama

Che Anaïs Barbeau-Lavalette, trentaquattrenne regista canadese, venga dal documentario, si vede fin troppo bene anche in questo secondo lungometraggio di finzione, Inch’allah; come si vedeva dal primo, Le Ring, anch’esso passato nella sezione “Panorama” nel 2008. Che Lavalette fosse interessata al Medio-Oriente lo si sapeva bene, già nel 2005 aveva girato un documentario nei territori occupati intitolato Si j’avais un chapeau e nel 2010 un altro intitolato Se souvenir des cendres. Diciamo che l’unico difetto di quello che è nel complesso un film più che buono, è proprio questo: prima di entrare nella vicenda la regista impiega un po’ troppo tempo a raccontare il setting, a lasciar vagare lo sguardo fra i vicoli, le case, i negozi, le macerie, quasi dimenticandosi che voleva anche raccontare una storia. Sono le macerie in un campo profughi palestinese nel territorio della Cisgiordania, dove lavora Chloe, una ginecologa canadese: il giorno in ambulatorio, la sera a casa in “territorio” israeliano. Lontana dal proprio paese – comunica con la madre in Canada solo via skype, il 2012 può essere definito l’anno in cui skype ha definitivamente sfondato nelle finzioni cinematografiche, chissà quale fu l’anno dei cellulari? - Chloe perde presto l’orientamento, non sa più dove sta di casa, restando sempre più emotivamente coinvolta da Rand, la donna palestinese incinta, che ha in cura, e dalla sua famiglia: la madre, l’altro bambino, il fratello Faysal con cui nasce anche una certa qual tensione erotica. Il marito della donna è in attesa di giudizio e verso la fine del film sapremo che dovrà starsene in carcere per 25 anni. Ogni volta che Chloe è in ambulatorio la situazione rischia di precipitare, i convulsi movimenti della macchina da presa documentano la tensione latente, una volta deve mandar via tutte le pazienti in coda, c’è il coprifuoco. Anche l’unico momento, apparentemente idillico - quello in cui la dottoressa, grazie all’amicizia con Ava, una soldatessa israeliana di frontiera, sua vicina di “casa”, riesce a farsi dare un visto giornaliero per portare la famiglia palestinese nel proprio villaggio di origine, adesso territorio israeliano – si rivela altamente sgradevole, soprattutto a causa dell’atteggiamento sprezzante di Faisal. La situazione diventa addirittura drammatica quando la ragazza deve partorire e il traffico bloccato e l’impaurita cocciutaggine di un soldato israeliano non le permettono di raggiungere un ospedale attrezzato. Una scena straziante e un capolavoro di regia: non si capisce dove finisca il documentario e dove inizi la finzione. Del tutto plausibile, sul piano psicologico, anche il traumatico sviluppo della relazione fra la ginecologa e la paziente. E le terribili conseguenze sul piano politico: la donna passa la frontiera e diventa kamikaze. La scena l’avevamo vista all’inizio, adesso la rivediamo e sappiamo collocarla. Inch’allah è un film molto ricco e sfaccettato, parlato in quattro lingue (francese, inglese, israeliano e arabo), con un gruppo di personaggi tratteggiati con grande bravura, una particolare attenzione ai bambini e alla loro straordinaria capacità di inventarsi delle storie meravigliose in mezzo all’inferno. Da segnalare che la casa di produzione micro_scope è la stessa di La donna che canta e Monsieur Lazhar.


CAST & CREDITS

(Inch’allah); Regia, sceneggiatura: Anaïs Barbeau-Lavalette; fotografia: Philipp Lavalette; montaggio: Sophie Leblond; interpreti: Evelyne Brochu (Chloe), Sabrina Ouazani (Rand), Sivan Levy (Ava), Yousef Sweid (Faisal); produzione: micro_scope, Montreal; origine: Canada; durata: 101’.


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