X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Integrazione e lavoro: due commedie italiane d’autore

Pubblicato il 17 aprile 2008 da Edoardo Zaccagnini


Integrazione e lavoro: due commedie italiane d'autore

La commedia italiana d’autore ritorna con due tematiche nobili e serie: il mondo del lavoro ed il problema dell’integrazione razziale. Bianco e nero, di Cristina Comencini, e Tutta la vita davanti, di Paolo Virzì. Il regista livornese riprende quota, forza e velocità. Devolve buona parte del suo autobiografismo trasversale alle esigenze del tempo e del costume. Inclina il canovacccio quasi fisso della sua tattica cinematografica verso l’Italia più contemporanea e pubblica. Viaggia verso un cinema che potrebbe aprire il varco ad una piccola rivoluzione tematica all’interno del cinema italiano di consumo, compresa la commedia e non scusa quella giovanilistica. Ne guadagnerebbe il nostro cinema, se fosse, e pure la nostra società, ma non è detto che sia. Che fa Paolone? Prende ancora un giovane della provincia, di quella sua terra ingenua e pura, leggermente idealizzata, e lo mette ad osservare il marcio della società, ancora una volta domiciliato nella capitale. Stavolta la protagonista è donna, anzi ragazza. Carina, molto tipo, dolce, saggia e buona come lo erano il Gabriellini di OvoSodo, il Corrado Fortuna di My name is Tanino e la piccola Caterina del suo penultimo film. Intelligenze di cultura contadina, anzi pescatrice, cresciute a prodotti regionali, antichi valori e ragionamenti semplici e franchi. Menti sane in corpi sani, occhi lucidi e brillanti, di quelli che capiscono ma non reagiscono, se non con una riflessione costante, silenziosa ed ossequiosa verso i privilegiati cupolari romani, figli della borghesia dominante e ben piazzata tra sampietrini e ministeri. Il primo bravo al regista glielo diamo per la scelta della giovane, una deliziosa Isabella Ragonese, dal dialetto siciliano appena accennato, quasi nascosto in un sorriso malinconico e spento. Virzì le affida le chiavi di un film acido e grottesco, più amaro che comico. E’ un film sui giovani di oggi, molto manicheo. La distanza tra l’eroina e la massa fa riflettere e lascia qualche dubbio. Sono davvero così i nostri ragazzi? E’ davvero un eretico pagliaccio il laureato in Filosofia teoretica? Crediamo di no. Crediamo il contrario. Crediamo che in questo paese incosciente e puerile i primi a soffrire siano proprio gli ignoranti, anche se non sono così uniti nel disastro come l’astuto e talentuso regista livornese li dipinge. Il grande fratello, ci chiediamo, può davvero vantare così vasti consensi e così tanta assuefazione? Mah..Virzì carica tanto per creare cinema e sentimenti contrastanti, situazioni antagoniste che obbligano allo schieramento spettatoriale. Dipinge figure di sabbia colorata che crollano all’improvviso previsto. Troppo brutto Ghini per essere vero. Leggermente più energico, forse perché poggiata sul vecchio archetipo di Norma Desmond, il personaggio acre ferrilliano. Si respira una leggera somiglianza tra la tragedia di Daniela e la carne umana della Sabrina di Fiano Romano. Che è brava davvero a sviluppare il terzo valido personaggio sotto la guida di Paolone l’autor comico. Felice il colore smaltato ed algido di tutto il film. Non del tutto approfondita l’indagine sociale del regista. C’è del malsano ma è come se non sia supportato dalla giusta dose di tragico realistico. L’omicidio porta fuori dal problema, così come l’incidente di Germano. Uno che all’inizio del film sembra sempre che esageri nell’enfasi ma alla fine non puoi mai non ammettere di quanto sia stato bravo. Domande senza risposta: perché una ragazza così in gamba e determinata non continua la sua lotta e si ferma più del tempo dovuto dentro quel postaccio? Perché per un lavoro da pochi euro al mese la stessa rinuncia a stare vicino ad una madre così amata e nobile nel momento in cui sta per perderla per sempre? Non vorremmo che Virzì abbia di principio e tradizione aver voluto prevedere troppo a tavolino lacrime e risate. La borghesia sorridente, cinica ed intellettualoide che l’esordiente Ragonese (Marta) incontra sul terrazzo è molto divertente ma è la stessa che il regista ci aveva presentato in Ovosodo, Ferie d’agosto e Caterina va in città. Alcune sequenze sono davvero fortunate. La storia che i laureati in filosofia siano i più versatili col dritto di turno che si beve un’intera redazione con lo charme tipico del mostro italico raccontato dai migliori autori della nostra tradizione comica, quello è davvero un momento fortunato del film. Però c’è la solita povera Italia e la solita povera gioventù gridata sui tram e gli autobus di ogni tempo recente per considerare questo film un manifesto del tempo e del problema. Va bene benissimo la focalizzazione del concetto, va bene la commedia amare che tiene alto l’esempio di un cinema davvero per tutti, vanno bene lo spazio filmico curato e l’attenzione al trucco ed ai costumi. Ottimo come sempre il lavoro sullo slang. Però il ritratto generazionale è un poco monco, troppo schiacciato dalle esigenze spettacolari strappa emozioni. Meglio Celestini, che va a incontrare con trecento euro di telecamera la verità dei giovani da Call-center. Tutta la vita davanti fa bene, aggiunge valore a Parole sante ed è un buon film. Ora avanti però, con un cinema più politico nel raccontare e più europeo nella serietà. Virzì, intanto, ha fatto il suo. E non è un capolavoro, anzi, nemmeno l’altra nobile commedia italiana. Cristina Comencini non si scosta dai suoi quartieri verdi con parcheggio e balconi. Dalle indagini borghesi su tematiche contemporanee, eleganti e radical. La famiglia l’ha guardata spesso da vicino, con una leggerezza o una serietà che mai, da Liberate i pesci a La bestia nel cuore, hanno saputo trasformarsi in oro. Ora riavanza con la commedia che pure ha già sperimentato, con propositi alti ed impari ai risultati. La regista mantiene fedele attenzione a temi sociali più olfattivi che tattili, caldi, atmosferici e antimaterici, che la inseriscono, di diritto e a pieno titolo, nel cinema di costume italiano. Un cinema medio sempre serio nelle intenzioni e nel comportamento, quello della Comencini, al di là dei toni usati e del valore finale del film. Un cinema di interni e relazioni personali spesso morbose, di appartamenti ed automobili, fatto di rapporti faticosi e necessari. Sopra il “caro” e dissacrato universo familiare la regista allestisce un’onesta, dignitosa ma pigra riflessione su un argomento nobile e delicato: cosa c’è dentro la convenzionale ed astratta rappresentazione del rapporto tra bianchi e neri oggi, oltre la teoria e il politically correct, all’interno di una media borghesia romana che la regista conosce, coi suoi mestieri e quotidiani, i suoi malcelati background caratteriali e culturali.. Bianco e Nero avanza a strattoni, con un andamento indeciso anche se nel complesso gradevole, con attori bravi a tratti ma scostanti nel regalare vita vera al personaggio. Guizzano virtuosi i Volo e gli Angiolini quando hanno il vento a favore. Soffrono invece quando il personaggio si allontana dalle loro corde. Allora si abbassano in un registro che non hanno ben capito ed individuato. Se la cavano rifugiandosi nel gruppo e pedalando con affanno, portando a casa i punti necessari per partecipare al prossimo film. Il pregio principale di Bianco e Nero è quello di parlarci della differenza che c’è tra un giudizio teorico da divano, costruito sul non incontro e valido come la sentenza su un film non visto, e l’analisi scomposta dell’emozione a caldo. Che nasce, al contrario, direttamente dal contatto con una realtà fattuale. La quale, a dispetto del facile e disutile ben pensare, offre il fianco a sensazioni contraddittorie e complicate. Tra bianchi e neri c’è una distanza storica e forse naturale che soltanto un obbligato e casuale sforzo di avvicinamento, possono riuscire ad annullare. Il punto di arrivo della regista romana è sempre lo stesso: l’amore e l’amicizia, in una parola il sentimento per l’altro, sono gli unici reagenti attraverso cui sviluppare conoscenza e verità. Base di ogni rapporto veramente umano. Sono i soliti vecchi, fondamentali, forse unici valori grazie ai quali si può cambiare la vita e il mondo. Il nostro e quello degli altri. Con il contatto, che va dalla lite al rapporto sessuale, si scopre che i neri non sono tutti uguali, che anche loro vivono separati e uniti in classi sociali, che la borghesia esiste anche tra i neri e che le difficoltà culturali provocano in loro imbarazzo e fastidio come avviene per noi. Il film aiuta a ribadire, e non è detto che non ce ne sia bisogno, che dietro la razza, dentro la pelle (più o meno) nera o (più o meno) bianca, ed oltre l’odore di quelle pelli e il timbro di quelle voci, c’è la vita che muove altre vite, che attrae e che fa saltare, senza possibilità di ritorno, le barriere reali della differenza. Ci sono domande e riflessioni nel film che possono tornare utili. Siamo abituati a vedere gente di tutte le razze ma quanti rapporti autentici, liberi, svincolati, produce la nostra forzata e fredda multirazzialità? Ragioniamo sul nostro pensiero circa i neri, ma più difficilmente ci chiediamo cosa loro pensino di noi. Ci dipingiamo spesso come bravi a metterci sullo stesso piano ma cadiamo nel complesso di superiorità quando ci proponiamo di essere gli unici capaci di gestire e sviluppare il rapporto. Esistono molti film che sbirciano nelle finestre degli immigrati, film che parlano la loro lingua, che si nutrono del loro cibo e che pedinano il loro inserimento. C’è un cinema che, secondo tradizione, è molto attento alle ultime nuove forme di proletariato. E’ una tradizione cinematografica internazionale, molto festivaliera, molto autoriale. Questo film invece, vittima dell’anticinema per la mancanza di una forma narrativa seducente e personale, ragiona oltre il primo processo integrativo: quello socio economico. E non racconta gli ultimi con la valigia e con lo spago, rabbiosi e disperati nelle baracche attorno alla città. Non è un film sull’inserimento ma su una disparità naturale e culturale che interviene a mantenere viva una questione sempre spinosa. La leggerezza, alla lunga più limitativa che apriscatole, non è mai esilarante nè acuto ed incisivo è lo sfruttamento serio di un’ottimo tema. I caratteri di contorno, tanto osannati in questi giorni, conferiscono al prodotto una effervescente freschezza, ma non lo aiutanto a trasformare un utile e catalogabile film medio in una perla da citare come poteva essere il film più vicino a questo: Indovina chi viene a cena, di Stanley Kramer. Restano le domande che il film ci fa, le piccole sollecitazioni che ci offre ed un prodotto volenteroso ed educato che per tutti, la massa indisinta, è assolutamente salutare.


Enregistrer au format PDF