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Intervista a Daniele Di Biasio, regista del documentario Figli del deserto

Pubblicato il 27 giugno 2009 da Arianna Pagliara


Intervista a Daniele Di Biasio, regista del documentario Figli del deserto

Come nasce l’idea di raccontare la vicenda del popolo africano saharawi, di cui i media oggi in Occidente dicono poco o quasi nulla?

Sono entrato in contatto con l’universo saharawi grazie a un amico che da anni organizza in Italia le colonie per i bambini provenienti dal deserto. Quello che mi ha colpito, oltre ovviamente la paradossale situazione politica che vive questo popolo di profughi, sono stati proprio i bambini. I bambini saharawi, infatti, sono sani, sorridenti, pieni di voglia di vivere e di conoscere. E’ per questa ragione che mi è sembrato subito molto interessante cercare di raccontare la loro vita in Africa, ma soprattutto il loro impatto con la cosiddetta civiltà occidentale. Ogni cosa per loro era una scoperta, un’emozione. Naturalmente il sentimento della meraviglia spesso era accompagnato dalla diffidenza verso qualcosa che fino al giorno prima non sapevano che esistesse. Questi bambini sono venuti in Italia, hanno goduto di un’estate di gioia e divertimento, ma poi hanno atteso con impazienza il momento del ritorno, il momento di ritrovare le loro famiglie. I saharawi, bambini e adulti, sono un popolo fiero e orgoglioso che non rinuncerà mai alla speranza dell’indipendenza. Ogni giorno per loro è l’ultimo nel deserto, sono pronti ormai da più di trent’anni a fare ritorno a casa.

Il documentario è stato girato in parte in Africa. Come è stata la tua esperienza nel deserto algerino insieme ai saharawi? Ci sono stati disagi e problematiche tecniche durante la lavorazione del film?

L’esperienza del deserto è straordinaria, come straordinari sono i saharawi, sia per la loro ospitalità che per la loro simpatia. Poi c’è il deserto, con i suoi incredibili colori e il suo cielo stellato. Abbiamo, però, trovato anche grandi difficoltà ambientali come l’assenza in alcuni villaggi di corrente elettrica e le tempeste di sabbia che ci hanno costretti per ben due volte a interrompere le riprese per un giorno per smontare e pulire la telecamera. La seconda volta che siamo andati nei campi profughi era agosto e abbiamo conosciuto il caldo vero, più di 50 gradi. Nelle prime ore del pomeriggio era impossibile anche solo mettere la mano fuori dalla tenda e potevamo girare dall’alba fino alle 11 e poi dopo le sei. E’ stata dura, ma, come dicevo prima, la compagnia dei saharawi è straordinaria.

Il film si pone, per così dire, dal punto di vista dei bambini. Come è stato lavorare con loro?

Sì fin dall’inizio ho immaginato questo documentario dal punto di vista dei bambini, anche a livello registico. Mi piaceva l’idea di osservare le cose come fanno loro: dal basso e con ingenuità. I tre protagonisti del documentario Fatima, Maina e Mohamed sono tre bambini simpatici e svegli. Lavorare con loro è stato divertente e, in un certo senso, Fatima e Mohamed (per loro era la prima volta all’estero) ci hanno identificati con la loro venuta in Italia e si è creato con tutti i membri della troupe un rapporto di fiducia e di complicità che ci ha permesso di lavorare in grande armonia.

L’attenzione al tema dell’infanzia, o dell’adolescenza, e dell’integrazione culturale caratterizza anche i tuoi precedenti documentari, come Pesci combattenti e Via dell’Esquilino. Si tratta in qualche modo di una costante all’interno del tuo lavoro di regista?

L’adolescenza, l’infanzia e l’integrazione culturale sono sicuramente temi che da sempre attirano la mia attenzione. Ciò è dovuto al fatto che da sempre, insegnando, sono a contatto quotidiano con i ragazzi, che, nonostante quanto si sente dire a proposito del cosiddetto “vuoto culturale”, sono la parte pulsante della società, sono il futuro e così raccontando loro cerco di raccontare ciò che sarà domani. L’integrazione, poi, è il tema del nostro secolo. Se non riusciremo a superare le barriere del diverso, resteremo una società immobile, senza futuro. Questi due temi si fondono quotidianamente nelle scuole, nelle strade, nelle discoteche. Quando un giorno riusciremo a capire davvero questo fenomeno e a insegnare ai nostri ragazzi che la diversità e l’integrazione sono la soluzione per il domani, allora avremo costruito, credo, una società migliore.

Come influisce la tua formazione di sceneggiatore sul tuo lavoro di documentarista? Qual è il peso che dai alla sceneggiatura in un contesto, quello del documentario, in cui si va incontro al dato reale spesso nel tentativo di restituirlo – per quanto possibile - integro, inviolato?

La mia formazione di sceneggiatore è ciò che mi impone, nel momento in cui mi avvicino a una realtà che voglio documentare, di pensare immediatamente alla struttura narrativa che potrebbe restituire meglio il senso e il tono racconto. Naturalmente il documentario è ricerca, tu immagini delle cose che poi (nella maggior parte dei casi) al momento delle riprese diventano scene diverse. E’ qui che subentra un altro tipo di lavoro, infatti la sceneggiatura vera e propria di un documentario si scrive in montaggio, dove hai tante ore di girato (frutto tutte di una scelta di racconto e di stile) e dai forma alla storia. Non credo all’assoluta oggettività del documentario. Nel momento in cui osservo qualcosa non posso che farlo attraverso la mia sensibilità, la mia etica, i miei sentimenti. Ho sempre cercato, però, di scavare più in profondità possibile, senza temere le contraddizioni intrinseche a ogni situazione, diventando per tutto il periodo della preparazione e delle riprese parte integrante della realtà che mi apprestavo a raccontare.

Ci sono registi, in particolare documentaristi, italiani e non, che apprezzi particolarmente?

Credo che il documentario italiano sia tra i più interessanti nel mondo. Il documentario è spesso terreno di ricerca e di sperimentazione. Sono convinto che ci sono molti bravi registi di questo genere narrativo. Dovrei fare un elenco davvero lungo perché mi capita spesso di vedere lavori importanti che raccontano molto più di tanti costosissimi film. Purtroppo la produzione del documentario in Italia (in Francia per esempio la situazione è molto diversa) sta diventando sempre più difficile a causa del fatto che sono davvero poche, pochissime, le televisioni che ne comprano e quando lo fanno non hanno comunque a disposizione grandi budget.

Ci sono già progetti, idee da sviluppare per nuovi film?

Ci sono alcuni progetti che sto portando avanti e che sono in fase di scrittura. In particolare sto scrivendo un film di finzione che vuole raccontare la realtà dei ragazzi di oggi, con i loro paradossi e le loro debolezze, ma, contemporaneamente con una vitalità travolgente. Non dico altro, questione di scaramanzia.


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