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Intervista a Ivano De Matteo

Pubblicato il 4 novembre 2013 da Edoardo Zaccagnini


Intervista a Ivano De Matteo

Gli equilibristi , suo terzo lungometraggio, è stato uno film italiani più importanti del 2012. Il precedente La bella gente, del 2009, seppur visto da pochissimi per via di un’assurda disavventura distributiva, è un altro film di assoluto interesse. Lui è Ivano De Matteo, già documentarista e regista teatrale. Aveva esordito nel lungometraggio undici anni fa, con Ultimo Stadio, del 2002, una commedia corale che incrociava storie diverse in una giornata di maggio romano, alla vigilia di una finale di Champions League. Ora Ivano sta girando il suo quarto film, I nostri ragazzi, ma prima delle riprese abbiamo voluto incontrarlo per farci raccontare il suo modo di lavorare e di intendere il cinema. Tutti i film di De Matteo, finora, sono stati ideati e scritti con la sua compagna Valentina Ferlan, e proprio da qui abbiamo deciso di partire: da come Ivano e Valentina si dividono i compiti durante il percorso creativo..

Noi viviamo insieme da ventitré anni e lavoriamo in coppia da tantissimo tempo. Abbiamo iniziato col teatro: Valentina scriveva ed io dirigevo e interpretavo. Il nostro lavoro parte sempre da una necessità di racconto, da un’idea che può venire sia a me che a lei. Valentina inizia a scrivere un soggetto. Due, tre pagine, non di più. E da lì si procede per idee. Parliamo, discutiamo, cerchiamo di sviluppare il trattamento. Nella prima fase è soprattutto Valentina a lavorare, ma dopo la prima stesura tutto avviene in completa condivisione. Io mi occupo della psicologia dei personaggi e di quella che potrei definire la “scrittura visiva”: immagino gli ambienti giusti o il modo in cui girerò quel tipo di situazione e quel particolare stato d’animo del personaggio. Man mano che si procede, i personaggi prendono una forma sempre più definita, in maniera quasi spontanea, tanto che in qualche modo sono loro a guidarci. Noi prepariamo la strada, ma la cosa bella, quasi umana, direi, è che ci lasciamo prendere da loro e li lasciamo vivere. Ci facciamo accompagnare in una strada che se ci piace seguiamo fino in fondo. Altrimenti la deviamo un po’. Sembra assurdo, ma scrivendo è proprio questo che accade.

Quanto margine di improvvisazione rimane sul set?

Arrivo sul set con una sceneggiatura abbastanza blindata. Poi è chiaro che essendo il regista e avendo collaborato alla sceneggiatura posso fare degli aggiustamenti. Quello che faccio sul set è tuttavia un lavoro di ritocco: mentre giro posso deviare leggermente una psicologia, apportare piccole modifiche ai dialoghi, d’accordo con l’attore. Ma nulla di più.

Che tipo di lavoro fai con gli attori?

Prima del set c’è un lungo lavoro preparatorio simile a quello che facevo in teatro, dove si saliva sul palco e si stava subito in piedi col foglio in mano. Si faceva la memoria e si andava avanti. Anche per i miei film non si parte da una classica lettura “seduti”, ma iniziamo a lavorare stando già in piedi. E’ un lavoro che richiede tempo, ma serve a dare sicurezza agli attori e a me stesso. Quando l’attore è davvero padrone della memoria, si può iniziare a lavorare sulla tecnica, sulle espressioni del volto e sulla postura. Un mese almeno provo con tutti, anche con gli interpreti di piccoli ruoli, anche con le comparse. Anche solo per un’ora, ma cerco di farlo sempre .

Quanto spazio creativo lasci agli attori?

Agli attori lascio spazio se vedo che hanno imboccato il binario che gli ho indicato. Se propongono delle cose sulla linea che voglio io, allora li lascio liberi, altrimenti correggo e stoppo. Essendo anch’io un attore, tendo a fargli sentire ciò che voglio da loro. Amo lavorare con la musica, mi interessa molto la musicalità. Uso il Pentagramma, divido in sillabe la frase: per ogni sillaba c’è un accordo musicale, tutto questo per dare ritmo e melodia alla frase.

Quanto c’è di teatrale nel tuo modo di girare?

Quello che tendo a fare nei miei film sono dei piani sequenza abbastanza lunghi. Uso molti carrelli, non la macchina fissa, il famoso “teatrino”, come si dice in gergo. Cerco di girare sequenze piuttosto lunghe anche per aiutare l’attore, evitando di spezzare la sua emozione. Mantengo la struttura intera anche per scene che poi verranno tagliate e montate. Se in montaggio mi accorgo che una scena è lenta, allora taglio e monto. Se invece capisco che quella sequenza possiede una sua velocità interna, una sua fluidità, la tengo così come l’ho girata. Ci sono sequenze apparentemente lente ma che dentro hanno un grande movimento. Lento può essere anche un videoclip, lento nel senso di ripetitivo, nel senso di monotono, nel senso che dopo un po’ rompe.

Ti capita di ritrovarti sorprese positive dal set, regali che non ti aspettavi?

Diciamo che lascio la camera accesa ancora per qualche istante dopo aver finito di girare la sequenza. Se c’è qualcosa di buono prendo anche cose che non erano previste. Mi prendo delle espressioni finali, le code dei Ciak, per esempio, possono contenere degli elementi molto utili, penso anche ai piani d’ascolto degli attori.

Che tipo di lavoro fai sugli spazi?

Per me gli spazi giusti contano moltissimo in un film. Prima di iniziare le riprese osservo, vado in giro, guardo, controllo. Per esempio, per Gli equilibristi, nonostante ci fosse un valido scenografo, mi sono andato a trovare degli spazi che non conoscevo nemmeno io. C’è gente che mi chiede: “Dov’è che avete girato quella scena?” e io gli rispondo: “Dietro casa tua!”

Che Roma è quella de Gli equilibristi?

Il mio obiettivo era di ambientare il film in una metropoli. All’inizio doveva essere Milano, ma poi ho scelto Roma perché Valerio è romano. Volevo mantenere viva la sua romanità, anche se non volevo che fosse particolarmente marcata. Così come non volevo una Roma troppo riconoscibile. Mi interessava una Roma che non fosse quella dei romani. Desideravo una città multietnica, una metropoli come ce ne sono altre al mondo. Allora mi sono andato a cercare dei punti irriconoscibili o quasi di Roma, decontestualizzati. Penso che da questo punto di vista abbiamo fatto un buon lavoro.

Nei tuoi documentari hai raccontato spesso gli ultimi, e con i tre lungometraggi finora realizzati hai indagato sia la borghesia agiata che il ceto medio. Ci sono diverse classi sociali che si alternano da un film all’altro, se non addirittura nello stesso film, come avviene in Ultimo Stadio. Come mai questo attraversare tante fasce di una stessa società?

Diciamo che già dai documentari ho sempre avuto voglia di conoscere storie e di scavare dentro i protagonisti di quelle storie. Tra i miei interessi c’è sicuramente quello di dare voce a chi non ne ha, ma anche quello di dire cose "fastidiose". Credo che in generale il mio lavoro parta dal voler raccontare una cosa, un tema, un argomento. La bella gente, per esempio, critica un certo tipo di borghesia di sinistra, ma il tema di fondo è quello dell’ipocrisia, argomento che tocca ogni fascia della società. Siamo partiti da chi a parole dice di volerla combattere, ma alle prime difficoltà fa marcia indietro. Rivedendo il film, però, ci siamo accorti che ciò che scuote davvero è il tema. La domanda che io stesso mi sono fatto e mi faccio è la seguente: “Ma che cosa avrei fatto al posto dei protagonisti?’”. Voglio dire che dalla critica sociale si può scendere ancora più a fondo, ad una analisi del comportamento umano. Nel film abbiamo usato i paletti delle ideologie, ci siamo serviti di ambienti e di categorie per arrivare ad una analisi più profonda dell’essere umano. L’obiettivo di Valentina e mio, in generale anche per Gli equilibristi e Ultimo stadio, è sempre quello di analizzare l’essere umano, al di là dei gruppi e delle ideologie.

Il tuo cinema non ha paura di descrivere la bruttezza e la natura violenta dell’essere umano. Tu esordisci nel lungometraggio con Ultimo stadio, ed apri con questa frase di Bertold Brecht: "Non consiglierei a nessuno di comportarsi umanamente se non con la massima prudenza. Il rischio è troppo grande. In Germania, dopo la prima guerra mondiale, uscì un libro con un titolo sensazionale: L’uomo è buono ed io mi sentii subito inquieto, e respirai di sollievo solo quando un critico scrisse: L’uomo è buono, il vitello saporito". Perché questa frase?

beh..Quella frase potrei metterla su tutti e tre i miei film!

Al di là di una critica sociale, tu sei molto attento a descrivere la profondità anche oscura dell’essere umano..

Esattamente! Si può partire dal criticare il vestito che abbiamo addosso, dalle maschere e dalle categorie in cui ci nascondiamo. Categorie al cui interno, ovviamente, ci sono delle tensioni, visto che siamo individui prima che gruppo. Ma a me non basta attaccare una categoria, lo trovo superficiale. Voglio andare oltre: devo togliere il vestito alla categoria, devo scansare la maschera, perché la sotto c’è un uomo, c’è un essere umano, ed è la dentro che voglio lavorare. Non credo che l’uomo sia buono, credo che sia molte cose. Col mio cinema mi piace scavare e trovare la cattiveria sotto la bontà, e viceversa. Mi piace buttare giù i luoghi comuni, le convenzioni e le semplificazioni. Poi questo obiettivo si può raggiungere cercando anche di far sorridere, ed è questo quello che cerco di fare.

E’ questo il tema che attraversa e che unisce tutti e tre i tuoi film?

Il lato oscuro e più scomodo dell’essere umano. Anche nel mio ultimo film, che sarà sulla famiglia e sui figli, e che sarà un film piuttosto duro.

Con La bella gente accosti due borghesie contemporanee urbane non di provincia, entrambe agiate. Una colta e apparentemente sensibile; la seconda cinica, volgare e ignorante. Cos’è che le tiene unite?

Si tratta di una convivenza estiva, stagionale, vacanziera, con la quale i colti borghesi soddisfano un bisogno di momentanea leggerezza, di una pausa dalle elucubrazioni intellettuali. Gli altri assaporano invece il gusto della cultura, la odorano, la scimmiottano. Come si incontrano questi due mondi entrambi agiati? Attraverso dei punti in comune, dei terreni di condivisione. Entrambi hanno bisogno di un lavoro defaticante prima di riprendere il quotidiano. Leggendo più in profondità, però, ci accorgiamo che le due coppie sono le due facce di una stessa medaglia. Loro non lo sanno, ma sono più simili di quanto vogliano credere.

La bella gente è stato definito una commedia all’italiana. Io credo che possegga una tensione di fondo paragonabile ad estremi anni ’70 come Detenuto in attesa di giudizio e Un borghese piccolo piccolo. Il tuo film ha dei momenti thriller e l’ho sentito in generale come un film duro e drammatico, anche se imploso e trattenuto. Che rapporto hai con i generi cinematografici, quanto ti interessano, quanto ti piace attraversarli e giocarci in un tuo film?

Non ho un particolare rapporto con i generi cinematografici, nel senso che non mi interessano molto. Non sono contaminato, condizionato. Io credo che nella vita si rida e si pianga, quindi non mi piace scindere il dramma e la commedia. Gli equilibristi è una commedia drammaticamente amara. La bella gente è una commedia amara, Ultimo stadio è una commedia amara. Se riesco a farti ridere su un tema serio sono più soddisfatto. E soprattutto lo sono quando tiro fuori dall’essere umano la cattiveria di cui parlavamo prima, che non è tanto voluta, quanto inevitabile. Fa parte dell’uomo, esiste. Ed è una cattiveria che allo spettatore piace, c’è poco da fare, e dentro lo spettatore mi metto anch’io.

Cosa è successo dopo Gli equilibristi?

E’ successo che dopo vent’anni di lavoro ho avuto le prime vere gratificazioni. C’è dell’assurdo ma con una cosa sola, dopo tanto lavoro, sei finalmente riconosciuto.

Forse tutto sarebbe avvenuto prima se La Bella gente fosse uscito in sala?

Credo di si, ma il film uscirà, almeno lo spero. In Francia è accaduto, ed è andato benissimo. Ho ricevuto recensioni lusinghiere dai più grandi quotidiani francesi. Io, Ivano de Matteo, regista praticamente sconosciuto in Francia, sono riuscito a rimanere quattro mesi in sala, e quattro settimane a Parigi, dove sono molto critici, dove smontano i film con grande facilità. E’ stata per me una grande soddisfazione, ed è anche grazie a questo successo de La bella gente in Francia che poi sono riuscito a realizzare Gli equilibristi. Sono entrato in coproduzione coi francesi e questo è stato importante. Ora, però, voglio che il film esca in Italia.

Vogliamo ricordare cosa è accaduto?

La bella gente è un film italiano con produzione italiana, con una distribuzione italiana che a un certo punto se ne va. Bisogna cercarne un’altra per sbloccare il fondo ministeriale, e ci si imbatte, purtroppo, in questo individuo che poi ha deciso di bloccare il film. Sono passati degli anni, ma non siamo ancora riusciti a sbloccare questa cosa. Ci sarebbero già anche le sale, sarebbe tutto pronto, ma ancora siamo impantanati in questa storia surreale.

Da un certo punto di vista, se uscisse ora sarebbe meglio...

Se fosse uscito allora, forse, il film avrebbe avuto scarsa visibilità: la solita manciata di sale, qualche settimana e poi addio. Ora dopo tutto questa confusione intorno al film, dopo tutto questo parlare, e dopo il successo della pellicola in Francia, ed anche dopo Gli equilibristi, bè, adesso il film potrebbe avere maggiore attenzione. Speriamo bene..

Truffaut diceva che conviene sempre girare i film in luoghi belli, così se il film viene male, almeno allo spettatore rimangono i bei paesaggi visti. Una curiosità, dove hai girato La bella gente?

Trovare quel posto è stato molto difficile. Devo ringraziare lo scenografo. Avevo già un posto ma non ne ero particolarmente soddisfatto. Mi servivano un casale incastrato tra due boschi, con la piscina e un lago nelle vicinanze. Siamo a Porano, vicino Orvieto. Per trovare quel luogo, lo scenografo ha imboccato una strada di campagna fino a che ha trovato un cartello con scritto “Proprietà privata”. Ha detto: “Fammi andare a vedere”. Si è inoltrato oltre il bosco, e ha trovato questa splendida vallata dove c’era un signore che aveva tre o quattro casali. Mi ha chiamato e mi ha detto: “Ivano, vieni a vedere!” Io sono andato e ho detto: “Fermi! Questo è il film!”. Siamo stati quattro settimane là e abbiamo vissuto un’esperienza che spero di poter ripetere sempre. Abbiamo vissuto in una specie di comunità. Ho voluto tutti là, attori, tecnici ecc.. La sera si mangiava tutti insieme, si provava la scena del giorno dopo e la mattina si girava. Il pomeriggio si andava a fare una passeggiata, c’era chi provava, chi suonava, e ognuno di noi cucinava qualcosa. Mi ricordo che Elio Germano cucinava i peperoni, tagliava, e c’era la sarta che preparava una fantastica pasta all’uovo. Insomma, c’era un clima di festa e credo che questo nel film si veda.

Quanto pensi al pubblico quando costruisci un film?

Se sto troppo attento al pubblico cado nell’ipocrisia. Non sarebbe più il film che voglio fare io. E’ chiaro che un regista gira un’opera perché un pubblico la guardi, ma dev’essere un incontro naturale. Non faccio studi e calcoli a scopo commerciale. Io voglio raccontare una storia a un pubblico che sia più largo possibile, perché vuol dire che ho realizzato un buon lavoro, ma lo faccio puntando sui miei pensieri e su quello che sento. Sono un regista che va molto d’istinto. Non penso al botteghino, ecco, e su questo mi scontro anche con i produttori. Per me il botteghino non è una proprietà, non rinuncio a ciò che voglio dire per colpa degli incassi. Se ho dentro urgenze da comunicare, lo faccio col cinema. Voglio urlare con la voce che il cinema mi offre. Per me è fondamentale esprimermi. Se non me lo lasci fare mi uccidi.

Nel tuo primo film ti ritagliavi un bel ruolo da attore. Poi non hai più recitato, come mai?

Quel ruolo in Ultimo stadio doveva farlo un attore che poi ha cambiato idea. Il produttore ha chiesto a me di farlo, io ho accettato perché era un ruolo nelle mie corde. Ma non lo farò mai più nei miei film, non mi interessa. Se mi capita di recitare in film di altri registi, lo faccio, ma solo per ruoli che mi piacciono. Per il resto recito davanti ai miei attori per fargli capire e sentire quello che voglio da loro.

Con attori spontanei, caldi, in un certo senso popolari, sembri trovarti benissimo. Penso a soprattutto a Mastandrea e a Germano..

A me piace molto lavorare con l’attore. Mi piace plasmarlo, forgiarlo. Poi mi affascina l’idea di lavorare con non attori presi dalla strada, ma penso che sia un’ipotesi impraticabile. Ecco, da questo punto di vista credo che attori come Mastandrea e Germano uniscano i due aspetti: la capacità dell’attore di farsi plasmare, e la spontaneità del non attore che recita solo se stesso. Sia Valerio che Elio non sono strutturati accademicamente, si sono formati entrambi sul set, sul campo, attraverso il lavoro. E sono diventati grandissimi attori. In generale mi trovo bene con attori naturali, non mi trovo bene con attori che tromboneggiano.

Forse il modo migliore per descrivere Gli equilibristi è definirlo un film sul nostro tempo. Sei d’accordo?

Rubo una frase che ho letto su un quotidiano: “Gli equilibristi è un film sull’equilibrio del portafoglio”. Credo sia un film sull’equilibrio economico, che in una sorta di effetto domino si porta dietro tutto il resto, gli affetti per primi. Ma Gli equilibristi è anche un film sulla legalità, un film sul pudore, sulla famiglia e sull’individuo. Io cerco sempre di riempire i miei film di verità, a partire dalle piccole cose. Curo i dettagli per cercare la verità, lavoro con lo psicologo, metto il personaggio addosso a me. Mi faccio domande. Giulio è una somma di tanti addendi

Non cerchi mai di trasformarlo in un eroe...

Mi comporto da documentarista, lo spio. Intorno a Giulio c’erano molte trappole. Gli equilibristi era un film difficilissimo da fare, perché potevo cadere nel pietismo: il protagonista poteva diventare un martire o un eroe. Io invece volevo che rimanesse sempre una persona comune, una persona con la quale empatizzare e riconoscersi, o riconoscere qualcuno. Giulio non fa nulla di eclatante, né in senso positivo né in senso negativo. Non va a rubare né chiede l’elemosina. Volevo un personaggio comune, anche banale, come banale è in fondo la nostra vita.

Banale in che senso?

Abbiamo dei picchi, ma in generale la nostra vita è banale, piena di ripetitività. Si fanno quasi sempre le stesse cose. Di interessante c’è il pensiero che accompagna quelle cose, ed è quel costante movimento interiore che mi va di raccontare. Mi piace scavare dentro l’individuo, andare più a fondo possibile, col rischio di non fermarmi più. Ogni mio film è un viaggio dentro di me, c’è sempre in fondo il desiderio di affrontare temi e domande che mi riguardano. Nei miei film ci sono tutte le domande che mi faccio, le mie paure, la mia rabbia. Credo che Gli equilibristi sia un film onesto. Per realizzarlo ho incontrato molte persone: sono stato nelle mense, alla Caritas, alla comunità di Sant’Egidio. Ho parlato molto con un mio amico che ha vissuto in automobile per sei mesi. Mi sono fatto raccontare un sacco di particolari. Nel film rimane tutto questo aspetto documentario e credo che dia forza al film.

Vista la tua attenzione al realismo, e visto che hai molta esperienza e molta attitudine col documentario, quando tornerai a farlo? Hai dei progetti in tal senso?

Mi piacerebbe tornare al documentario così come al teatro, e un giorno sono sicuro che lo farò. Diciamo che il mio rapporto col documentario è molto spontaneo. Se ho qualcosa che voglio raccontare, prendo vado e lo faccio, con strumenti leggeri ed eterogenei. Di solito non ho una produzione, non ho nemmeno una scrittura vera e propria. Diciamo che vado a braccio. Per ora però, non lavorerò a documentari, anche perché sono molto preso dal nuovo film.

Puoi raccontare qualcosa in proposito?

Non è una commedia. Sarà un film molto liberamente tratto da un Best Seller non italiano. Parlerà di famiglia e figli adolescenti. E’ un film a cui tengo molto, che nasce da una domanda che mi sono fatto, e che poi ho girato agli altri. Tenterò di porre un grosso dubbio a tutti. Il film nasce per trovare quella risposta che io non sono ancora riuscito a darmi.

Grazie Ivano.

Grazie a te.


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