Io, robot

Ci sono due modi diversi per leggere un film come Io, robot. Il primo è quello di considerarlo come un testo filmico a sé stante, come un’opera originale che non ha niente a che spartire con quelle pagine di Asimov da cui dice di voler trarre ispirazione. In questo caso, quello che ci troviamo davanti è un film d’azione, sostanziato da una trama gialla abbastanza prevedibile (il vero colpevole è, in effetti, fin dall’inizio, di facile identificazione) e legato ad un discorso di fondo piuttosto reazionario sulle paure insite in una crescita tecnologica eccessivamente veloce. Incentrando la nostra lettura su una dimensione prettamente antropologica ci troveremo di fronte ad un testo filmico che vorrebbe, in maniera più o meno consapevole, rappresentare la tipica paura del cambiamento e del “nuovo” provata dall’uomo occidentale nei confronti delle sue stesse creazioni. Una paura tutta interna al sistema, insomma, che si fonda su quel senso di spavento che proviamo nel momento in cui cominciamo a sospettare che elementi entrati a far parte della nostra esistenza quotidiana possano rivelarsi improvvisamente minacce spaventose. Si sbaglierebbe, probabilmente, a voler rintracciare in questa scelta archetipica possibili raffronti con la situazione politica americana contemporanea, ma certe scene, specie nel finale, sembrano essere anche un tentativo di elaborare il lutto delle morti dell’11 settembre attraverso l’unione (che fa la forza), il mutuo soccorso e la preghiera. Sicché nel finale in cui gli uomini decidono di combattere contro l’orda di robot invasori (per di più ispirati da logiche da fanatismo pseudo religioso), non possiamo non cogliere un’espressione di quel desiderio di azione tipico dell’americano medio di oggi. E la facilità con cui la massa si fa da parte per lasciare spazio all’azione dell’eroe che, solo, può risolvere la crisi, ci riconduce a quel bisogno di un salvatore quasi messianico (Bush?) che tutti oggi sembrano aspettare, ivi compresa la vecchietta che, nel film, snocciola rosari sotto l’occhio vigile di un robot cattivo che, proprio all’amen, ritorna di colpo buono (la Nuova America super cristiana?). Fortunatamente resiste, all’interno del racconto, anche qualche elemento che non consente schieramenti di troppo semplice definizione a partire dal protagonista, caratterizzato, fin dall’inizio, da un odio molto retrò nei confronti di tutto ciò che è moderno o che è macchina, ma che è in parte macchina lui stesso e, quindi, ponte ideale tra il mondo dei robot e quello degli uomini. Da cui la scena necessaria della risolutiva stretta di mano finale tra uomo e robot sotto lo sguardo felice della “mediatrice” dottoressa Calvin in una discreta citazione langhiana. Ed è proprio qui, che Io, robot rivela la sua natura di remake nascosto di Metropolis, film, quest’ultimo, con cui condivide una certa fascinazione per l’ambiente urbano e le sue modificazioni epocali. Ma sono temi ed idee che restano inerti sfondi ad un racconto troppo indeciso tra la perfezione logica dell’intreccio (Asimov) e la dimensione da videogioco virtuale tipica degli action contemporanei. Un ibrido preoccupante. Un secondo modo di leggere il film è quello di metterlo a contatto proprio con quelle pagine asimoviane da cui trae le sue suggestioni. Anche in questo caso, comunque, l’impressione è che il film manchi sostanzialmente il proprio bersaglio. Per il Buon Dottore della fantascienza la trama narrativa era sempre stata il pretesto per mettere in moto complesse macchine logiche, acuminate come cristalli di impressionante perfezione. I racconti di Io, robot sono gialli alla Conan Doyle dove, accanto al bisogno di scoprire l’assassino, riposa una riflessione mai banale sul rapporto tra scienza e tecnologia e sull’impossibilità della seconda di non tradire le istanze utopiche ed umaniste della prima. Le tre leggi della robotica, insomma, non sono fatte per essere infrante, come afferma incautamente Will Smith (insolitamente bravo), ma per essere costantemente magnificate nella loro semplicità che è sempre, genialmente, fonte di ambiguità. Per Asimov, insomma, la macchina non può uccidere perché il delitto è sola prerogativa dell’uomo. Da questo punto di vista il film in questione tradisce abbondantemente sia i temi dello scrittore americano, sia il fascino per la struttura narrativa che promana dalla lettura delle sue pagine. Ed è da amanti di queste ultime che ci è difficile perdonare Proyas per lo scempio compiuto.
(I, Robot); regia: Alex Proyas; sceneggiatura: Jeff Wintar, Akiva Goldsman; fotografia: Simon Duggan; montaggio: Richard Learoyd A.C.E., Armen Minasian; musica: Marco Beltrami; interpreti: Will Smith, Bridget Moynahan, Bruce Greenwood, James Cromwell, Chi McBride, Alan Tudyk; produzione: John Davis, Topher Dow, Laurence Mark; distribuzione: 20th Century Fox
[novembre 2004]
