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Io sono Leggenda

Pubblicato il 15 gennaio 2008 da Alessandro Izzi


Io sono Leggenda

Il grande colpo di genio di Io sono Leggenda di Richard Matheson (il papà letterario di uno dei più bei film di Spielberg: Duel) sta tutto nel ribaltamento finale delle prospettive. Contrariamente, infatti, alla logica perturbante di Dracula, il capolavoro di Bram Stoker che metteva in scena una società vittoriana di uomini di scienza e di fede che combattono contro un unico temibile mostro/vampiro, il piccolo gioiello dello scrittore americano racconta, nelle sue poche, ma pregnanti pagine, la storia di una società vampiresca messa in crisi dall’unico ed ultimo rappresentante della specie umana. A cambiare non è, e vale la pena sottolinearlo, il punto di vista narrativo, che resta sempre e comunque umano, né il risultato finale dello scontro, che si risolve sempre (sulla pagina) col soccombere dell’elemento estraneo al contesto sociale, quanto piuttosto la nostra percezione del suo significato da un punto di vista filosofico.
In una società di vampiri, infatti, è l’uomo ad essere il mostro, l’elemento perturbante e poco importa che, prima di essere tale a causa di un misterioso contagio da cui è immune il protagonista, quella società era stata di fatto umana perché il passato conta poco o nulla ed è la maggioranza a dettare la percezione individuale del mondo e ad imporre la propria visione anche sulla Storia.
Eppure, anche se non ce ne accorgiamo mai del tutto presi come siamo a seguire trepidanti le disavventure di Neville, la logica speculare dell’intreccio mathesoniano rispetto al modello Dracula resta incredibilmente spietata. Se nel romanzo ottocentesco, infatti, ad essere messo in scena è un mostro vampiro che si aggira (di notte) a caccia di prede, nel suo riflesso novecentesco è invece un uomo ad andare a caccia (di giorno) dei temibili vampiri da eliminare con il più classico dei paletti di legno nel cuore. In entrambi i casi, comunque, è un’intera società a vedersi predata nel momento in cui è più debole, quello del sonno, dei suoi esponenti più inermi e scoperti. Ed in entrambi i casi, infine, è la società a cercare di eliminare il mostro, stanandolo dal suo rifugio/loculo ed annientandolo senza darsi troppa pena di capirlo per davvero. Di questo gioco di riflessi doveva essere in parte consapevole lo stesso Francis Lawerence, regista di questo che è il terzo film tratto dal capolavoro dello scrittore americano dopo il cult con Vincent Price e la versione più fantascientifica con Charlton Heston, visto che ha scelto, nel ruolo del protagonista, un attore come Wil Smith, un energico ed atletico uomo di colore che è l’esatto contrario del classico cadaverico, bianchissimo, vampiro.
Il grande momento di autoconsapevolezza del relativismo dei punti di vista (che nel film manca del tutto) arrivava solo nelle ultime pagine, quando il povero Neville, ormai catturato dai vampiri, veniva offerto al pubblico dileggio di esseri spaventosi che, pur tra urla feroci, non potevano nascondere la paura avevano provato e che continuavano a provare nei suoi confronti. Lui che era l’ultimo uomo, l’ultimo mostro e l’ultimo lascito di un passato che bisognava lasciarsi alle spalle.
Lawrence doveva essere stato abbastanza intrigato da questa percezione gotica del mondo. Epperò questa visione esistenziale secondo la quale la vittima (perché tale la consideriamo fino all’ultima pagina) si guarda allo specchio e scopre di essere stata, fino a quel momento, il carnefice, non si sposa troppo bene con quel buonismo americano da cui Matheson era, fortunatamente per noi, del tutto immune. Ed ecco allora che, dall’intreccio perfetto del geniale romanziere, vengono epurati tutti gli elementi scomodi.
Ai mostri vampiri (qui un po’ più zombie, ma senza la componente politica alla Romero) viene sottratta, quanto più possibile, la vecchia identità umana. Privi di ragione, privi di parola (di fatto non parlano mai) e quindi anche privi di paura, i "camminanti" del film non sono più, com’era nel romanzo, l’espressione di una nuova, diversa società, ma solo il segno dell’abbruttimento della vecchia. In quanto tali, i mostri di Lawrence non hanno il peso drammaturgico dei loro modelli letterari e sono, anzi, semplici figure di contorno il cui unico scopo e produrre paura nel pubblico in sala. Ma niente più che qualche genuino soprassalto sulle poltrone.
Senza l’ingombro dei possibili discorsi filosofici, a nobilitare il film restano solo le atmosfere (superba la fotografia, eccellente la colonna sonora).
Ma, si sa, le atmosfere bastano a se stesse solo nei preludi (e sono davvero belli i primi venti minuti di proiezione nel loro clima sospeso tra una waste land diurna e un orrore notturno che all’inizio possiamo solo sentire, ma non vedere) poi ci vorrebbe un po’ di sostanza a tenere a galla un film.


CAST & CREDITS

(I Am Legend); Regia: Francis Lawrence; sceneggiatura: Akiva Goldsman, Mark Protosevich; fotografia: Andrew Lesnie; montaggio: Wayne Wahrman; musica: James Newton Howard; interpreti: Will Smith (Robert Neville), Alice Braga (Anna), Dash Mihok (Maschio alpha), Salli Richardson (Zoe), Charlie Tahan (Ethan), Willow Smith (Marley), Joanna Numata (Femmina alpha), Darrell Foster (Mike); produzione: Warner Bros. Pictures, Heyday Productions, Original Film, Weed Road Pictures; distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia; origine: USA, 2007; durata: 101’


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