Je vois rouge

Sembra incredibile, ma quasi trent’anni dopo la caduta del Muro, la ricostruzione della memoria famigliare, l’apertura degli archivi ha ancora molto da rivelare, da riservare, da nascondere. E’ quanto emerge nell’originale documentario della giovane regista bulgara –ma trapiantata a Parigi, insieme ai genitori immediatamente dopo il 1989 – Bojina Panayotova che decide di debuttare in una forma lunga, dopo una serie di corti, parlando di sé e della propria famiglia e provando a squarciare il velo anzi la coltre di silenzio, diffidenza, rimozione da cui è avvolta l’intera sua famiglia: dalla nonna ormai molto anziana, alla zia, che continuano a vivere a Sofia, alla madre insegnante universitaria, al padre artista, da tempo separato, ancora a Parigi, appunto. Accolto in “Panorama” il film intitolato in francese Je vois rouge cioè Vedo rosso racconta la tenacia della regista nel tentativo di portare a termine la propria ricognizione che è poi il proprio progetto, ovvero il proprio film, malgrado tutto, malgrado i continui ostacoli che le vengono frapposti, praticamente da tutti. Il corrispettivo iconico di questa ricerca, di questo film sul film è lo split screen, Bojina spezza molto spesso lo schermo in due parti, con due videocamere digitali che riprendono lei e i suoi recalcitranti interlocutori, a significare la separazione anche geografica (lei in Bulgaria gli altri in Francia), la frattura del continuum memoriale e due atteggiamenti decisamente antitetici. La regista ricorre a tante e diverse forme di ripresa, fra le quali quelle di stampo più tradizionale con macchina da presa a mano o su cavalletto sono quantitativamente le meno numerose. Molto più spesso lavora col cellulare, con la telecamera del computer che riprende lunghi dialoghi sgranati via skype, o anche con telecamere a circuito chiuso, ricorrendo altresì ad abbondanti family frames (fotografie e filmini in super8 che spaziano dagli anni ’50 agli anni ’80), oltreché a materiale di archivio ufficiale della Bulgaria di regime. Da scoprire in realtà ci sono cose che lo spettatore europeo è abituato a vedere ormai da decenni: spionaggi, tradimento, mezzo paese sotto la lente dei servizi segreti e l’altra metà che in qualche misura, o attivamente o mediante connivenza, ha partecipato al controllo capillare. Se a questo tuttavia si aggiunge che il nonno paterno faceva parte a tutti gli effetti della nomenklatura di regime che lo portava spesso all’estero facendogli godere privilegi negati ai più, qualcosa da rivelare ovvero da nascondere la famiglia ce l’aveva. Il film si regge tutto su questo conflitto che si inasprisce, man mano che il film procede, sempre più, fino alla minaccia da parte della madre (la quale peraltro risulta la più collaborativa di tutti) di non dare alla figlia la liberatoria per figurare nel film, ciò che dà luogo a una serie di strascichi e risentimenti su cui viene fornita delucidazione persino nei titoli di coda del film. Al di là della vicenda famigliare – come detto non particolarmente sorprendente – il conflitto etico-pedagogico forte del film è quello tra il diritto a sapere e il diritto a dimenticare, il diritto a diventare individuo consapevole (simbolicamente rappresentato nel film dal fatto che la regista, nei mesi in cui indaga in Bulgaria, prende anche lezioni di guida e alla fine, ultratrentenne, ottiene la patente) e, invece, il diritto delle persone a vario titolo coinvolte a preservare la propria privacy anche a fronte di un progetto nobile e ambizioso come quello della figlia o nipote che sia.
(Je vois rouge). Regia: Bojina Panayotova; sceneggiatura: Bojina Panayotova; fotografia: Bojina Panayotova, Xavier Sirven; montaggio: Léa Chatauret, Elsa Jonquet, Bojina Panayotova ; sound design: Xavier Sirven produzione:Arnaud Dommerc, Andolfi, Parigi; origine: Francia-Bulgaria 2018; durata: 83’.
