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John Rambo

Pubblicato il 24 febbraio 2008 da Carlo Dutto


John Rambo

Dopo aver aiutato vent’anni fa la resistenza talebana contro l’invasore russo, Rambo John J. si è ritirato nelle inospitali giungle thailandesi a fare il barcarolo. E, come sempre, Rambo John J. va controcorrente, come ogni barcarolo che si rispetti. Aiuta a traghettare un manipolo di cooperanti in un villaggio della vicina Birmania isolato dalla guerra civile e, controcorrente, tornerà a salvarli quando questi saranno catturati da alcuni sanguinari guerriglieri. Per riuscire nella sua impresa, sarà accompagnato da alcuni mercenari e dalla solita santabarbara portatile, costituita da ogni tipo di arma, senza dimenticare l’immancabile arco. Una storia che ricorda molto quella del secondo First Blood, in cui l’uomo dal braccio d’acciaio e dal collo taurino riusciva a liberare dei soldati Usa prigionieri nella giungla vietnamita. Un film che, sorprendentemente, colpisce, scuote, scorre come un fiume. Può piacere o disgustare, ma non lascia indifferenti. In un panorama cinematografico dell’action-movie che esalta l’uso degli effetti speciali, che non si preoccupa di mostrare elementi fuori da ogni umana realtà ed esula dalla cronaca quotidiana vomitata dai media, John Rambo piomba con il suo carico di pallottole ad incrementare una settimana di uscite cinematografiche dove il sangue scorre copioso, dal barbiere vendicatore di Tim Burton al Llewelyn Moss tratteggiato dai fratelli di Minneapolis. Girando al confine con i luoghi dei veri massacri che da decenni insanguinano la regione e lontano dai set di cartapesta e neve finta di Cliffhanger, Stallone dirige per la prima volta il personaggio dell’ex berretto verde con piglio registico ormai consolidato anche dall’ultima, convincente regia, di Rocky Balboa. Lo fa affidandosi a macchine a mano che si muovono agili tra le radure, mantenendo il punto di vista dei personaggi in fuga e sostenendo una tensione originale e fulmicotonica nella non-originalità del plot generale.

La base che accomuna le due ultime fatiche dell’attore newyorchese risiede tutta in una mestizia diffusa, popolaresca e patetica dei due personaggi: Rocky e John, persi nella loro solitudine, incapaci di rapportarsi a una stessa società che non riesce ad assorbire il disagio dell’outsider, che ghettizza gli onesti in un ‘lebbrosario’ sociale. La tristezza, poi li avvolge come miele, parafrasando la canzone gucciniana. Un film apprezzabile per chi ha vissuto l’”icona” Rambo nella sua cronologica apparizione, a partire da quel 1982 in cui un veterano del Vietnam si trovava a uccidere un poliziotto per salvarsi da un linciaggio immotivato. Chissà se Rambo ha conosciuto sotto le armi un tassista di nome Travis Brickle, veterano come lui e come lui disadattato alla vita post-bellica. Anni in cui la Guerra Fredda sostituiva quella asiatica e si combatteva anche con le armi della propaganda cinematografica come ebbe a dimostrare Ronald Reagan minacciando gli allora nemici sovietici al grido di Next time I’ll send you Rambo. Saghe, quelle dei due macho R., che creano icone cinematografiche opposte, ma incidenti, personaggi che non sembrano invecchiare, sostenuti da un attore che tiene tutto sulle proprie spalle e sulle rughe nascoste da interventi poco machisti.

Se da una parte la sfida è vinta, sia sul piano della tensione emotiva che sull’attenzione a mostrare un personaggio vinto e sconfitto, che riesce su malgrado a sentirsi vivo solo mandando al Creatore le anime malvagie, il film si perde nell’eccessivo realismo delle morti. Una sorta di morboso dualismo che da una parte mostra la guerra e l’effetto che questa impartisce ai corpi, dall’altra rimarca la vivida sensazione di una morbosa sequela “enciclopedica” di straziamenti, spappolamenti e amputazioni, nascosta da sentimento di denuncia, materializzando nelle membra e nelle carni straziate la solita pulizia della coscienza di chi le guerre le vive indifferente di fronte allo schermo di un televisore. Una sensazione che si rivela fin dalle prime scene, che nei titoli di testa mostrano in un montaggio senza respiro le vere immagini della recente protesta dei monaci birmani sfociata nei bagni di sangue già dimenticati. Con echi e rimandi al fiume come Cuore di tenebra e all’acqua-caronte di Apocalypse Now, Stallone fa esordire il suo personaggio al quarto episodio della saga (in attesa di un quinto annunciato dallo stesso attore-regista) con un vaffa, impreziosendo i dialoghi di perle come “Quando sei costretto, uccidere diventa come respirare”. Sentenze senza appello nelle labbra dell’ex berretto verde indio-tedesco. Non italo-americano, come viene spacciato dalla traduzione nel secondo episodio (si ricorda Murdoch: Origini italiane: gran belle origini..), ma basta ascoltare la versione originale per credere: Rambo è meticcio, sioux nell’applicare le tecniche di sopravvivenza degne di Robinson Crusoe e teutonico nell’applicare uno sterminio di chiunque gli capiti sotto tiro minaccioso. Un body count da far rizzare i capelli, mercenari fascistoidi che troppo ricordano emuli reali nelle terre irakene e la mono-maschera di Stallone sono elementi ottimi nelle mani dei detrattori del soldato indio-tedesco. Ma anche i detrattori non potranno che sussultare alla scena finale, picco visivo di un pathos che solo certe icone del cinema possono suscitare. Arrivederci barcarolo.


CAST & CREDITS

(Rambo); Regia: Sylvester Stallone; sceneggiatura: Sylvester Stallone, Art Monterastelli; fotografia: Glen MacPherson; montaggio: Sean Albertson; musica: Brian Tyler; interpreti: Sylvester Stallone (John Rambo), Julie Benz (Sarah Miller), Paul Schulze (Michael Burnett), Matthew Marsden (School Boy), Graham McTavish (Lewis), Ken Howard (Rev. Arthur Marsh), Rey Gallegos (Diaz), Tim Kang (En-Joo), Jake La Botz (Reese); produzione: Rogue Marble, Lionsgate, Millennium Films; distribuzione: Buena Vista; origine: USA, Germania 2008; durata: 91’; webinfo: www.ramboisback.it


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