Justin Bieber - Never say never

Il grande assente di Justin Bieber Never say never è, paradossalmente, proprio Justin Bieber.
Strana affermazione se si pensa che il giovane cantante canadese è inquadrato per almeno il 95% del documentario e che le immagini del suo concerto più importante vanno ad occupare, in rigoroso split screen, anche parte della lunga serie dei titoli di coda.
In Never say never, è evidente, l’immagine di Bieber deborda, straripa dai confini dell’inquadratura si inoltra in tutte le direzioni cercando reti di connessioni che vanno al di là del mero spazio contenitore del fotogramma. E non è solo una questione di tridimensionalità e di sfondamento dell’illusione prospettica dello schermo, quella di cui stiamo parlando, ma una vera e propria urgenza di riconnettersi ad un vissuto dello spettatore che non è quasi più composto di Cinema anche se è profondamente intriso di Immagine.
Il fotogramma tradizionale sembra del tutto incapace a contenere la dimensione mitica dell’immagine di Bieber e, sin dall’inizio, deve caricarsi di Icone, di loghi e di prassi che rimandano ad altri spazi e ad altri orizzonti di comunicazione. Il Social network, la posta elettronica, il text dei messaggi dei telefonini entrano di peso nel corpo della rappresentazione e rivendicano la loro natura altra rispetto alle definizioni tradizionali di senso. Sono gli spazi nei quali il mito si è formato e nei quali il mito sopravvive. Indipendentemente dal cinema che può solo limitarsi a prenderne atto. Ed indipendentemente dalla Musica stessa che è quasi un incidente di percorso.
Prima di essere il cantante più popolare del momento, Justin Bieber è stato un fenomeno di Youtube. Lì è nato, lì ha mosso i primi passi come soggetto di brevi video musicali che ognuno si portava a casa con un click. L’origine del suo successo è il link e la sua portata virale che si diffonde nello spazio del villaggio globale indipendentemente dai possibili meriti che quel link si porta dietro. Quel che conta non è l’essenza, ma l’indirizzo, la URL che (siamo in Italia) urla in un villaggio in cui vince chi grida più forte. Il mito Justin Bieber muove i primi passi con le immagini del Panda che starnutisce e con quelle del gattino che spalanca le zampette. Il fenomeno trionfa nella sua capacità di diffondersi, non nella sua intimità più profonda. Esiste perché se ne parla, vive perché contagia. Quando i quindici minuti di celebrità di Warhol divengono alla portata di tutti, la nuova barriera diventa l’estrema replicabilità della connessione. Noi siamo perché qualcuno ci clicka. Il riconoscimento passa per quello. Essere soggetto di un film è solo la tappa istituzione di un percorso che è passato nella rete delle connessioni. Justin Bieber è fenomeno perché ha superato il milione di amici: la sua consistenza è data dal numero dei contatti e poco importa se poi le pagine scaricate sono, in proporzione, meno di quel che sarebbe lecito aspettarsi, perché nel passaggio dal click all’altro click c’è stato comunque spazio bastante per mettere su pubblicità. Così il film comincia con l’apertura di una mail e prosegue nel putiferio delle comunicazioni delle fans, a raccontarci del concerto più importante della carriera di un divo pop di appena diciassette anni. Nell’arco di un’ora e mezza di Bieber vediamo tutto: lo vediamo cantare e ballare, lo vediamo ammalarsi e guarire, lo vediamo studiare e tornare a casa, lo vediamo coricarsi e dormire. Lo vediamo in costume di scena e a torso nudo per il piacere delle fans. Lo vediamo con gli amici, ma mai con una ragazza ed anche questo per il piacere delle fans. Quel che non vediamo è Justin Bieber. E dopo i primi venti minuti, il sentimento della sua assenza, nell’onnipresenza del suo simulacro, fagocita l’attenzione dello spettatore e lo accompagna fino alla fine della proiezione riempiendolo di ansia.
Si perché per tutto il film l’immagine di Bieber è fatta oggetto di scomposizione cubista. È fenomeno su cui ognuno ha qualcosa da dire: dalle fans recalcitranti che lo vorrebbero tutte come marito alla mamma che lo coccola, dai collaboratori coi quali ha un ottimo rapporto ai dottori che gli curano il mal di gola. Centomila immagini di Bieber riempiono lo schermo. Sotto la foto del divo di turno ognuno appone il suo commento. Ognuno clicka su "Mi piace". E la foto è quella del Brand. Del marchio di fabbrica che ognuno può comprare.
Justin Bieber, quello vero, è rimasto fuori dello schermo. Nella proliferazione dei contatti, s’è fatto comparsa della sua stessa vita. Sta in scena e dice quello che ci si aspetta da lui: che metterà a posto la stanza prima di uscire con gli amici, che vuole i Mcnuggets di pollo quando il dottore gli ha proibito i fritti e che sta male al pensiero di cancellare il suo concerto perché tanti bambini ci resteranno male.
Immagini di un divo ad altezza di ragazzo, come lui è. Ma il come lui è resta il vero mistero sia per noi che per lui. Il documentario non si pone mai per davvero l’obiettivo di capirlo. Forse in segno di rispetto nei confronti di un’adolescenza che ha diritto alla sua privacy, al suo spazio, al suo essere. Più probabilmente si è pensato non fosse interessante ai fini commerciali.
Ad ogni modo la cosa veramente interessante è rimasta fuori. Forse ad aspettare che un regista in cerca di Cinema e non di immagini si faccia carico di raccontarla finalmente a qualcuno.
(Justin Bieber: Never Say Never); Regia: Jon Chu; fotografia: Reed Smoot; montaggio: Jay Cassidy, Jillian Twigger Twigger Moul, Avi Youabian; con: Justin Bieber, Miley Cyrus, Jaden Smith, Shawn Stockman, Wanya Morris, Nathan Morris; produzione: Insurge Pictures, Island Def Jam Music Group, MTV Films, Magical Elves Productions; distribuzione: Universal pictures Italia; origine: USA, 2011; durata: 95’
