Kiki - Consegne a domicilio

Kiki – Consegne a domicilio è stato, per Miyazaki, un film vacanza.
Leggero, spensierato, semplice contro ogni previsione, è, di fatto, un film tutto intessuto di blu e di bianchi con appena qualche macchia nera ad aggiungere pepe all’ordito di una narrazione ariosa che sfida la leggerezza di una nuvola che corre lesta in cielo.
Anche Porco rosso, in fondo, era stato un film vacanza che sceglieva di scorrazzare per i cieli d’Italia, ma lì il senso della Storia faceva capolino ad ogni passo, s’impastava grumoso coi pastelli e creava uno sfondo giammai inerte ad un bisogno di racconto che passasse per uno sguardo anche politico sul Reale.
In Kiki - Consegne a domicilio, invece, la vacanza non è geografica, ma spirituale. Alle preoccupazioni di un Laputa che fa volare in aria castelli e isole invisibili, contrappone appena la scopa di una strega che freme tutta quando la magia del volo ne attraversa il manico di legno e le setole cispose.
La storia, piccola piccola, la chiudi in un palmo e ti sorprende che sia la stessa mano che avrebbe disegnato Il castello errante di Howl o La città incantata. È tanto lineare che quasi fa paura. Ci dice che nel mondo esistono le streghe, ma sono per lo più buone e servizievoli. Ci racconta di come, raggiunta la giusta età, le piccole fattucchiere lasciano il loro nido e volano in cerca di lavoro accompagnate solo dal loro fido gatto nero. Ci ripete che ognuna di queste streghe ha un suo talento e che la storia del loro bildungsroman sta tutto nel trovarlo e farlo diventare il mestiere di una vita. E ci racconta l’estrema linearità che c’è quando, per trovare la propria posizione del mondo, non hai altri nemici che le tue paure e la tua voglia di restare bambina.
La mamma di Kiki, ad esempio, era maestra nel preparare pozioni medicamentose. Una tradizione che muore nel mondo tecnologico di oggi abituato a farmaci potenti e prescrizioni mediche. Eppure il compianto per una tradizione che dissolve nel disegno non si trasforma mai in invettiva, ma ha la dolce costatazione del cambiamento di tutte le cose. Kiki da parte sua l’unica cosa che sa far bene è volare e, quindi, senza neanche rendersene conto, apre un’attività di consegne a domicilio: nuovi mestieri si devono inventare quando i vecchi non hanno più ragion d’essere.
Il confronto tra vecchio e nuovo tira fuori un lato odioso solo quando arrivano in scena personaggi detestabili come la ragazzina viziata che avrebbe volentieri fatto a meno del pasticcio di aringhe che la nonna ha preparato lavorandoci su un giorno intero. Ma sono solo comparse di un mondo in fondo tutto buono in cui c’è ancora spazio per la fiducia come per la sorpresa.
Ed è proprio qui che Kiki – Consegne a domicilio rivela una particolare sintonia col Kurosawa più solare, quello di Madadayo, per intenderci, che ritrova un senso sacro nelle cose semplici e ci sta dentro con piana nostalgia. Una favola che scalda e consola ad ogni passo.
Ma poi Kiki, per un po’, perde la magia del volo. Monta sulla scopa e cade ad ogni passo perché quel che le veniva naturale diventa ora sforzo, sudore, fatica ed incertezza.
E comincia il momento più delicato, poetico e magico di un film che è musica per gli occhi e balsamo per il cuore ad ogni fotogramma. Momento delicato perché al racconto della giovane che perde per strada l’incanto dell’infanzia si sovrappone quello autobiografico del lavoro dell’artista che quell’infanzia perduta deve ritrovarla nell’arte.
Kiki – Consegne a domicilio è la favola del ritrovare, da grandi, la semplicità dei bambini. La sua forza è tutta in questo nucleo che è come scrigno di infinita poesia. Kiki ritrova il senso del volo come l’artista supera il timor panico del foglio bianco. Di mezzo, come in ogni favola che si rispetti, c’è solo l’amore.
(Majo No Takkyubin); Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki; fotografia: Shigeo Sugimura; montaggio: Takeshi Seyama; musica: Joe Hisaishi, Sydney Forest; produzione: NIPPON TELEVISION NETWORK, STUDIO GHIBLI, TOKUMA SHOTEN; distribuzione: Lucky Red; origine: Giappone 1989; durata: 102’
