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KILL BILL 1 & 2

Pubblicato il 21 aprile 2004 da Alessandro Borri


KILL BILL 1 & 2

Kill Bill (inteso nella sua interezza, ovverosia: la donna che morì due volte mantiene l’odio per la sua vendetta) è il capolavoro probabilmente insuperabile di Tarantino. E non è superabile perché dice una parola definitiva e (purtroppo) terminale su decenni di citazionismo e cinefilia. Il cinema come fata morgana, terra promessa, Eldorado: ecco il suo lascito. Quentin chiude il cerchio aperto dieci anni prima col seminale (seppur ipervalutato) Pulp Fiction, portando alla più esatta definizione quell’ipotesi di narrazione teorica, di godardianesimo pop liberato da ogni sostrato ideologico. Nel frattempo è divenuto anche un regista totale e invasato, capace di un atto d’amore così grande da raccogliere intere galassie di celluloide dentro lo sguardo ammiccante di Uma Thurman, e di osare l’inosabile (“essere”, oggi, l’innamorato per eccellenza, un Von Sternberg onnivoro, bulimico, transgenico). Forse come mai prima, in Kill Bill l’ammicco si fa arte memoriosa, ineffabile, che si concede le massime libertà: siano un duello alla katana sotto la neve accompagnato da Don’t let me be misunderstood versione Santa Esmeralda, o il pirateggiamento di infiniti sample filmici manipolati con la sagacia combinatoria di un Paul Oakenfold. Ecco l’art action di Suzuki e King Hu che si oblunga in un noir desertico dove ti aspetti possa spuntare Robert Mitchum; non fai in tempo ad assorbire il montaggio operistico alla Leone che piombi in una landa di zombie fulciana; sei in un training stile Shaolin tutto zoomate impazzite e ancora ripensi a quella faccia da Aldrich che hai lasciato dietro; precipiti in un trasparente hitchcockiano prima di planare su un blues messicano dove l’idea, il sentimento, la vita e la morte si sposano. Nessuna sfumatura nella tavolozza del linguaggio analogico viene trascurata: si tratti di passare dall’animazione al live action, dal bianco e nero al colore, dal buio alla luce (non dimenticando di omaggiare la monumentale fotografia di Richardson). Gioco a tutto campo, ma con un rigore e un rispetto che pensi a cosa combinò Oliver Stone con Natural Born Killers e ti viene da perdonarlo perché non sapeva quello che faceva, come perdoni oggi anche Peter Greenaway per i suoi patetici dirge sulla fine del cinema. Se c’è qualcosa che si può rimproverare a Tarantino è semmai il suo eccesso di intelligenza, profusa, e quasi scialata in ogni inquadratura e pagina di sceneggiatura. L’avvicinamento di Beatrix a Bill (come quello borgesiano ad Almotasim), è un labirinto in una linea retta, una gimkana di rimandi e anticipazioni da decrittare come un geroglifico strutturale, una panoplia di variazioni stratificate ab infinitum su un unico accordo le cui note sono amore e rancore. Un avvicinamento al mistero di se stessi, la cosa si fa sempre più chiara. Perché - volendo prendere sul serio la divisione feuilletonistica imposta dalla Miramax - la sposa in nero del primo volume si muta in una madre dolorosa, e il capitolo conclusivo potrebbe benissimo chiamarsi, come la canzone di Kate Bush, This Woman’s Work. Mentre il film d’azione lascia il posto alla riflessione su se stesso, proprio come nella seconda parte del Don Chisciotte. E adesso, cosa resta da fare?

[aprile 2004]

Cast & credits:

Regia, sceneggiatura: Quentin Tarantino; fotografia: Robert Richardson; montaggio: Sally Menke; musica: RZA, Robert Rodriguez; scenografia: Yohei Taneda, David Wasco; costumi: Kumiko Ogawa, Catherine Marie Thomas; coreografie: Yuen Woo-ping; interpreti: Uma Thurman, David Carradine, Michael Madsen, Daryl Hannah, Vivica A. Fox, Lucy Liu, Gordon Liu, Sonny Chiba; produzione: Miramax, A Band Apart, Super Cool ManChu; origine: USA 2003-04; distribuzione: Buena Vista International; durata: 111’ + 136’.

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