Kutiyattam: il riconoscimento di Śakuntalā
Roma, Teatro Palladium - Tra i labirinti, e gli specchi e i libri, innalzati da un famoso bibliotecario cieco, spicca la delicata e triste storia di un dottore arabo, tal Averroè, che secoli orsono si consumò nell’immane compito di forzare le chiavi di volta della Poetica aristotelica, i termini tragedia e commedia –e, consumandosi, fallì, finendo per svanire e fondersi e riflettersi con l’immagine stessa del cieco letterato...
E la Ruota degli Eventi, se è permessa un’asserzione così imprudente, è tornata a rimirare quel preciso evento, quando il pubblico dell’edizione 2008 del Romaeuropa Festival si è trovato ad assistere allo spettacolo Kutiyattam: Il riconoscimento di Śakuntalā, messo in scena dalla compagnia del Natana Kairali al Teatro Palladium di Roma.
Finzione (?) letteraria a parte, l’impatto deflagrante dello spettacolo indiano ci riporta, su un piano poetico e catartico allo stesso tempo, all’incessante spasimo compiuto dal borgesiano Averroè nel cercare di comprendere il significato a lui negato delle parole tragedia e commedia –negato perché lavorava sulla traduzione di una traduzione della Poetica, negato perché uno iato di quattordici secoli lo separava dal precettore di Alessandro il Grande, e, in definitiva, negato <<perché chiuso nell’ambito dell’Islam, non poté mai sapere il significato di quelle voci>>-, “struggimento conoscitivo” che ha attanagliato anche gli spettatori de Il riconoscimento di Śakuntalā, naufragi in mezzo alla tormenta di colori, suoni, movimenti intessuti dagli interpreti indiani intenti a ricostruire la storia della bella Śakuntalā, figlia dell’eremita Kanva e di una apsaras -creatura divina assimilabile alle ninfe greche-, e del re Dusyanta, del loro innamoramento e delle innumerevoli peripezie a cui andranno incontro prima di poter coronare il loro amore.
Quello che si è dispiegato davanti ai nostro occhi non è stato solo il dramma epico composto da Kālidāsa quasi duemila anni fa, ma un’intera alterità di Storie, culti, mondi, arti tali da creare una vertigine assoluta totalmente disancorata e aliena dalla “nostra” sfera estetico-emozionale: impossibile intuire la mole di segni che sottendono a questa massima espressione del kutiyattam, il “teatro sanscrito” praticato in alcune regioni del sub-continente indiano, talmente antico e ricco di storia da essere proclamato dall’UNESCO “patrimonio orale ed immateriale dell’umanità” -segni che rimandano incessantemente al altri segni: basti solo pensare che il testo di Kālidāsa è l’antefatto del Mahabharata, il più grande poema mai composto da mente, e penna, umane.
Sprazzi di semiosi naturale –determinati colori associati ai personaggi, le fattezze e i movimenti di alcuni piuttosto che di altri- ci permettono di affacciarci alla soglia dei mondi di Śakuntalā e Dusyanta, tentativi di razionalizzazione che vengono guidati per mano da parte di Gopal Venu, regista dell’opera, che all’inizio di ognuna delle tre serate in cui era diviso il dramma, colmava attraverso rapidi interventi (semiosi verbale?) i vuoti lasciati aperti da una vicenda per noi altrimenti incomprensibile anche solo a livello drammaturgico –il piano dell’opera che forse, anche nella sua differente impostazione estetico-strutturale, si avvicina di più al canone-visione occidentale.
L’assoluta compenetrazione tra musica, danza, canto e recitazione forma nel Riconoscimento di Śakuntalā un unico sistema di prassi teatrale che, in ultimo, si realizza e assume significazione solo sotto l’egida del sacro. Ecco dunque abluzioni e riti propiziatori aprire e chiudere, scandire, il ciclo tripartitico dello spettacolo, aura sacrale di cui noi spettatori siamo parte integrante, officiando e partecipando della buona riuscita del dramma. Dramma che, in ultimo, si apre davanti a noi grazie alla natura archetipica della storia, innalzando così un canale emozionale veicolato dagli sgargianti costumi, dagli incessanti rāga, dalle danze ipnotiche, permettendoci forse di penetrare il nucleo intimo ed essenziale dell’amore di Śakuntalā e Dusyanta, e nell’illusione di rivivere e far nostro l’incontro tra Artaud e il teatro balinese, non facciamo altro che raggiungere quello che il malinconico Averroè non poté mai, tragicamente, raggiungere anche esso.
Di: Kālidāsa Diretto da: Gopal Venu Interpreti: Kapila Venu, Sooraj Thekkepattath Raman Nambiar, Rajanesesh Babu, Ranjith Ramanchadran, Ammannur Kochukuttan Chakiar Sajeev Musicisti: Nirmala Gopalan Nair (talam), Chakkiyodi Divya (cembali), Kizhake Nambiar Madom Parameswaran (tamburi mizhavu), Rajeev Padiparambil (tamburi mizhavu), Hariharan Alikkil Narayana Guptan (tamburi mizhavu), Padinjare Parangodath Unnikishnan (tamburi idakka) Trucco e costumi: Haridas Araya Kalarikkal Produzione: Interarts Riviera SA
Tour management: Scènes de la Terre, Chantal Larguier Con il patrocinio di Ambasciata dell’India in Italia
Web Info: Romaeuropa Festival, Compagnia del Natana Kairali, UNESCO