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L’allenatore nel pallone 2

Pubblicato il 11 gennaio 2008 da Alessandro Izzi


L'allenatore nel pallone 2

C’erano aspettative intorno a L’allenatore nel pallone 2. C’erano i ricordi di chi con quel film c’è cresciuto, vedendolo e rivedendolo nelle repliche televisive delle varie reti locali come un appuntamento fisso di cui, da un certo punto in poi, non si riesce più a fare a meno. C’era quella piena aria da cult che si ritrova anche in altre pellicole di genere dei tardi anni settanta e degli anni ottanta come Giovannona Coscialunga o Spogliamoci così senza pudor e che, ancora oggi, ci regala un certo senso di rustica italianità. C’era l’idea di ritrovare un Banfi “ruspante” capace, si sperava, di lasciarsi alle spalle le storie di Nonno Libero e di recuperare una comicità del passato, fatta di volgarità un po’ gratuite, ma sempre ingentilite dall’ammiccamento, dall’inflessione dialettale, da quell’escusatio petita e non petita che è propria di quei comici che pescando nel torbido trovano quella realtà piccola e minuta, fatta di sesso e di pane, di basso e di carne che, alla fine ci pareggia tutti più e meglio della livella di Totò. Perché, alla fine, dobbiamo ammetterlo, siamo tutti uguali non solo di fronte alla morte, ma anche nella risata, quando questa è sana e comunitaria. Come, in fondo, e qui stava il bello del primo Allenatore nel pallone, siamo tutti uguali anche quando tifiamo per una squadra, quando teniamo per una casacca e i suoi colori o quando seguiamo trepidanti le evoluzioni di un giocatore che sa fare poesia con il suo pallone (spettacolo, oggi come oggi, sempre più raro).
Tifo e riso: due bisillabi assonanti scoperti con grazia proletaria in un film di ormai vent’anni fa, nato non certo per divenire quel cult che ormai è, ma per sciogliere le tensioni, per raccontare un calcio pulito di fronte allo scandalo delle calcio scommesse che infiammava il dibattito nazionale e per ricordare che il vero calcio era quello che respirava nella gioia nazionale per un mondiale (quello dell’ottantaquattro) appena vinto dagli azzurri.
Poi si guarda il nuovo capitolo, quello che è appena uscito nelle sale e che è certamente destinato al bacio del successo al botteghino, e l’impressione è di essere in una di quelle partite da girone di ritorno in cui i giochi son già fatti e i calciatori si rimpallano la sfera stancamente in attesa di un pareggio che “ci sta tutto”, che serve a lasciare invariata una classifica che non può più cambiare più di tanto.
Più che un fenomeno di ritorno L’allenatore nel pallone 2, comunque, potrebbe essere considerato una sorta di onda di risacca in quel perverso gioco di incroci che va da quel vasto e sconfinato mare che è il Cinema alla più contenuta e apparentemente sonnacchiosa spiaggia che è la Televisione italiana con le sue veline sul bagnasciuga. All’andata il primo Allenatore nel pallone era stato il numero dieci di calibro di una squadra (il cinema di genere) che aveva molto da insegnare alle ancor giovani reti generaliste. L’ammiccamento erotico, le grazie esibite di procaci figuranti (presto letterine), il tono un po’ casereccio dei programmi di intrattenimento che hanno contraddistinto gli esordi della televisione (e che si trovano ancora, un po’ trasformati, un po’ più adulti, in programmi come Striscia la notizia o Le iene) erano già tutti contenuti nelle saghe di Pierino con Alvaro Vitali o nei film con Pozzetto o la Fenech. La Fininvest ha fatto tesoro della lezione di un cinema trasgressivo, ma non troppo (tanto che lo replicava e o le replica ancora, anche se non più in prima serata ora che la buona educazione s’è fatta diktat) che sapeva parlare a tutti un linguaggio ecumenico e divertito. Un cinema che era ancora esportabile e vendibile all’estero, senza troppe vergogne per la pochezza delle storie e gli effetti speciali un po’ arrangiata all’italica maniera. L’allenatore nel pallone è stato, quindi, il paladino di un cinema che insegnava alla TV modelli e forme di linguaggio, che indicava direzioni.
L’allenatore nel pallone 2, dall’altra parte del guado, è segno di un cinema incapace a bastare a se stesso. Tutto quello che fa lo apprende dalla TV o lo costruisce fuori da se stesso. Un po’ come è successo, in fondo, anche al calcio ormai divorato dai palinsesti televisivi con calciatori che son sempre più simili alle veline con cui devono poi uscire la sera.
Il problema è che, a far da modello al film è soprattutto la fiction delle reti generaliste: un prodotto che rinuncia alle risate grasse di una comicità “visuale” e butta di rimessa su un comico di situazione e su una commedia degli equivoci: un tipo di storia che bisogna saper raccontare, altrimenti la noia è dietro l’angolo.
L’allenatore nel pallone 2, quindi, non è una brutta cosa, ma somiglia troppo ad un film per la TV, con cui condivide ritmi, inquadrature e personaggi (pensate a Izzo: il più televisivo ed inutile del mazzo), per non dispiacere un poco. Il suo tallone d’Achille non sta tanto nel fatto che è volgare, quanto, per paradosso, nel fatto che lo è troppo poco. E se il suo inneggiare ad un calcio pulito che sia prima gioco e poi spettacolo è sincero e commovente, non di meno resta l’impressione che l’inno tenda al qualunquismo delle utopie troppo facili di cui è piena proprio la TV.
Qua e là fa ridere di gusto di quelle risate grasse di cui non ci si dovrebbe vergognare mai. Ma ad uno sguardo attento, ripensandoci, ci si accorge che quelle risate non vengono tanto dal film o dalla storia, ma da quei momenti in cui è il calcio a prendersi in giro da solo attraverso il cinema, come nello splendido episodio dell’intervista a Lotito o quando ci si trova di fronte ad un Totti attaccante nelle inedite vesti di avvocato difensore o ad un Alex Del Piero che, abbandonate le acque minerali degli spot, combatte con una penna di piuma d’oca. Oppure è Banfi a farci la grazia di una battuta improvvisata, di un colpo di genio di attore che illumina un film altrimenti stanco nel suo rimando ad un modello sempre guardato con inesausta e per noi sempre più giustificata nostalgia.


CAST & CREDITS

(L’allenatore nel pallone 2); Regia: Sergio Martino; sceneggiatura: Lino Banfi, Luca Biglione, Sergio Martino, Romolo Guerrieri, Franco Verucci; fotografia: Giancarlo Ferrando, Bruno Cascio; montaggio: Eugenio Alabiso, Alberto Moriani; musica: Amedeo Minghi; interpreti: Lino Banfi (Oronzo Canà), Alessandro Del Piero (Se stesso), Francesco Totti (Se stesso), Anna Falchi (Gioia Desider), Urs Althaus (Aristotoles), Giuliana Calandra (Mara Canà), Andrea Roncato (Bergonzoni), Joanna Moskwa (Myra), Carlo Ancelotti (Se stesso), Biagio Izzo (Fedele), Gianluigi Buffon (Se stesso), Fabio Galante (Se stesso), Little Tony (Se stesso), Luca Toni (Se stesso), Carlo Mazzone (Se stesso), Christian Brocchi (Se stesso), Fulvio Collovati (Se stesso), Roberto Pruzzo (Se stesso), Giancarlo Antognoni (Se stesso), Michele Baldi (Se stesso), Daniele De Rossi (Se stesso), Marco Civoli (Se stesso), Alberto Gilardino (Se stesso), Marcello Lippi (Se stesso), Claudio Lotito (Se stesso), Francesco Graziani (Se stesso); produzione: Dania Film, Rodeo Drive, VIP Media, Medusa Film; distribuzione: Medusa; origine: Italia, 2007; durata: 108’


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