L’amoralità di Almodovar
In maniera piuttosto complicata e sotto mille travestimenti l’ultimo film di Almodovar sembra raccontare la perdita della morale, anzi per meglio dire l’amoralità delle relazioni dominate dal desiderio e dalla passione. L’intenzione di fondo non è quella di dare giudizi o lezioni di morale, nulla di tutto questo, l’obiettivo è quello di indagare l’oscurità dei sentimenti e del cuore umano. Un progetto maturato a lungo, oltre dieci anni, anche perché lo riguardava intimamente, pur non essendo strettamente autobiografico come più volte ripetuto. A scombinare le carte contribuisce strategicamente la struttura del film: una matrioska che contiene tre storie, sempre uguali, ma con diversi punti di vista (il presente con Enrique, Angel e il fantasma di Ignacio; l’infanzia/giovinezza narrata nel racconto “La Visita” con Enrique, Ignacio/Zahara e padre Manolo; e il passato reale con Ignacio, Juan e il signor Berenguer/padre Manolo) Con questo procedimento, di accostamento paritario, privo di un preciso ordine di “importanza”, si possono relativizzare i fatti narrati, e di conseguenza mettere da parte qualsiasi definitiva presa di posizione. Dopotutto il richiamo più volte esplicitato dall’autore al noir, specie nella figura della donna fatale, in questo caso nel triplice ruolo interpretato da Gael García Bernal (Zagara/Angel/Juan), è anche una sorta di allontanamento dal campo delle responsabilità: ciò che è fatale, irresistibile al desiderio, segnato dal destino, quale tipo di giudizio può avere? Nessuno, il desiderio si giustifica da solo, al massimo può portare il peso della colpa. Il triplice personaggio interpretato da Bernal però non esprime mai un senso di colpa, lui rappresenta una metafora assoluta del desiderio, proprio per quella sua spudorata metamorfosi dei ruoli. Sarebbe non-rappresentabile, come “metafora assoluta del desiderio”, se non potesse mutare sembianza esteriore a piacimento, proprio nella misura in cui il desiderio non è mai statico. In lui coesiste una ambiguità priva di scrupoli: da un’apparenza di normalità, da un viso da bravo ragazzo, alla trasformazione in canaglia fascinosa, pronta ad uccidere il proprio fratello considerato come un rivale (inutile dire che un certo tipo di desiderio mimetico produce rivalità, in proposito si legga Shakespeare. Il teatro dell’invidia di René Girard, e aggiungiamo che l’uccisione del fratello è un’interdizione biblica, rimanda a Caino e Abele). Le relazioni tra i protagonisti sono sempre triangolari nelle diverse versioni della storia, sono costruite intorno al tre, numero perfetto per stabilire una disparità, tale da produrre l’espulsione di uno: due si coalizzano, in qualche modo, contro uno. Certo, nonostante l’assenza di giudizio sui fatti, l’insieme multiplo di sguardi de La Mala Educaciòn, si dipana a favore di una qualche verità, di una conoscenza sul passato e il presente. Ad incarnare questo percorso conoscitivo è Enrique, regista di successo (è già al suo terzo film), alla ricerca di un nuovo soggetto tra i ritagli di notizie di cronaca. Quando lo sentiamo leggere: “In un giardino zoologico di Taiwan, durante l’ora di massima affluenza, una donna si getta in uno stagno pieno di coccodrilli. Mentre i coccodrilli la sbranano, la donna si avvinghia ad uno di essi senza emettere un gemito”, capiamo qual è la sua missione. Pur di raggiungere una verità Enrique è pronto ad abbracciare un coccodrillo/Juan, a lasciarsi morire dentro il proprio passato, a chiudere una porta dietro i fantasmi che vengono in “Visita”. Con questo film fermo sul presente e con gli occhi aperti sugli anni della formazione - in quei luoghi e in quelle esperienze dove nascono le prime convinzioni - l’autore spagnolo torna alle sue origini, come se volesse cercare da lì nuova linfa vitale.
[ottobre 2004]