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L’anima buona del Sezuan

Pubblicato il 15 maggio 2009 da Giovanna Vincenti


L'anima buona del Sezuan

Roma, Teatro Argentina – Messa in scena per la prima volta nel 1943, questa favola amara risulta ancora, purtroppo, fortemente attuale. A distanza di quasi sette decenni, L’anima buona del Sezuan presenta una realtà che, per quanto simbolica, al pubblico di oggi suona tristemente familiare. Afferma Mariangela Melato ‘sembrava una profezia pessimista quest’opera, ora è solo neorealismo’.

‘La Cina è vicina’, verrebbe da dire. Quella Cina, come affermano i registi Bruni e De Capitani ‘delle frenetiche mutazioni epocali degli anni attuali. La Cina dei templi e dei grattacieli, delle sete ricamate e degli stracci occidentali’ in cui si cerca di fronteggiare la crisi attraverso individualismo disumano, spietato e soprattutto disperato. Quella Cina, che Brecht elegge a simbolo di una società in cui la decadenza morale è prodotto della miseria. Una realtà in cui la bontà diventa un lusso che pochi possono permettersi. ‘Come faccio a fare il bene se i prezzi sono alle stelle?’ domanda Shan Te alle tre divinità che, tutt’altro che dei ex machina, così distanti dai problemi del mondo terreno, non sono in grado di offrire alcuna soluzione.

Facile, dunque, (sembrerebbe) coinvolgere ed emozionare il pubblico con un testo del genere insistendo sulle ovvie analogie con la nostra contemporaneità. Ma la riuscita di questa produzione del Teatro Stabile di Genova, diretta dai registi Bruni e De Capitani, non dà l’impressione di limitarsi a questo aspetto. Questa messa in scena conferma il superamento di quel teatro epico, caro all’autore di Augusta, e spinge, anzi, in direzione contraria.

Difficile non immedesimarsi e ‘simpatizzare’ con la protagonista, che per non lasciarsi travolgere dal branco di scrocconi si vede costretta a ricorrere alla figura di un fantomatico ma temibile cugino (anche grazie all’interpretazione di un’attrice straordinaria come Mariangela Melato). Ma, nonostante questo, l’opera viene restituita nel rispetto di quel costante e fondamentale gioco d’equilibrio tra favola e crudo realismo che la caratterizza.

Questo a cominciare dalla scenografia di Taddei, la cui essenzialità strutturale si unisce a un’attenzione minuziosa per il particolare. In uno spazio delimitato da una pedana, un telo mobile e degli scaffali da bottega (pronti a trasformarsi nelle ciminere di una fabbrica) trovano posto ricchi costumi dalle tinte sgargianti e tutta una serie di ninnoli e piccoli particolari di sapore orientale. Scenografia impreziosita, tra l’altro, dalle straordinarie variazioni di luce e colore ideate da Sandro Sussi.

In questo universo di colori e cineserie risplende, poi, una Melato energica e come sempre generosa con il proprio pubblico, attorniata da una compagnia di ben quindici attori, tutti assoltamente impeccabili. L’attrice incarna splendidamente il suo doppio ruolo, grazie al suo raro talento e la sua profonda sensibilità, oscillando, con naturalezza e fluidità, tra la generosa Shen Te e il suo crudele alter ego, il severo cugino Shui Ta, in una costante tensione tra bene e male, idealismo e cinismo, universo femminile e universo maschile, mai completamente distinti né, tanto meno, prescindibili.

Una traduzione agile e asciutta curata dagli stessi registi Bruni e De Capitani contribuisce a rendere questa messa in scena vibrante e ritmata. Da non perdere.


Autore: Bertolt Brecht; versione italiana: Ferdinando Bruni e Elio De Capitani; regia: Ferdinando Bruni e Elio De Capitani; interpreti: Mariangela Melato, Roberto Alinghieri, Alice Arcuri, Marco Avogadro, Fabrizio Careddu, Margherita Di Rauso, Rachele Ghersi, Alberto Giusta, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Fiorenza Pieri, Ernesto Maria Rossi, Vito Saccinto e Federico Vanni; scene e costumi: Andrea Taddei; musiche: Paul Dessau; suono: Renato Rinaldi; luci: Sandro Sussi; Produzione: Teatro Stabile di Genova.


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