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L’anima di un uomo

Pubblicato il 20 agosto 2003 da Alessandro Izzi


L'anima di un uomo

Una delle preoccupazioni costanti di tutto il cinema di Wenders è quella assai baziniana della percezione del tempo che passa. L’ossessione per l’immagine, per la capacità del cinema di congelare, sia pure per qualche breve fotogramma, l’eterno divenire del mondo, deriva, in ultima istanza, forse, proprio dall’esigenza di limitare i danni prodotti dall’inarrestabile moto apparentemente rettilineo del tempo. Ma a ben vedere, questa esigenza profonda non è semplicemente un semplice riaggiornamento del vecchio complesso della Mummia teorizzato dal critico francese secondo il quale ogni forma d’arte non è che il tentativo dell’uomo di sopravvivere, sia pure come simulacro, alla propria stessa morte, perché in Wenders la riflessione antropologica (e, quindi, in qualche misura oggettiva) sul tempo e sul suo continuo scorrere si arricchisce di una dimensione esistenziale, filosofica e psicologica (e, quindi, soggettiva) che sono del tutto estranei all’ontologia di Bazin. Il cinema di Wenders non è, quindi, e non vuole essere una semplice riproduzione fenomenologicamente oggettiva del reale nel suo eterno divenire, ma è anche una riflessione sul modo sempre diverso dell’Uomo di esperire il mondo che lo circonda e la “durata” di questa “esperienza”. Per questo l’immagine perde spesso la sua carica documentaria per farsi sfacciatamente ambigua. Essa dice nel preciso istante in cui cela, mente nel momento in cui, incredibilmente, dice la verità. Il risultato di questa pratica è di avverare un paradosso che si fa ancor più incredibilmente ricco dal punto di vista semantico nel momento in cui, come in The soul of a Man, si appropria delle logiche a prima vista oggettive del classico film documentario. Il film in questione è, infatti, prima di tutto oggetto di riflessione, di ricostruzione di un passato mitico di cui sopravvivono solo alcuni suoni sparsi (i brani musicali fortunatamente conservati in qualche registrazione) e, tristemente, quasi nessuna immagine (delle tre biografie poetiche che lo compongono due sono finti documentari girati in un bianco e nero sgranato e solo uno raccoglie vere immagini d’epoca). Il meccanismo è, in parte assimilabile (e siamo sicuri che l’accostamento piacerebbe a Wenders) a quello portato avanti dai primi pionieri del cinema (Lumiere e ancor più Melies) che, non potendo essere sempre presenti con le proprie macchine da presa, a quegli eventi storici che meritavano di essere conservati, non si preoccupavano di realizzarne delle spesso sontuose finte ricostruzioni in studio che poi spacciavano per vere. Consapevole del fatto che la verità non è solo quella che viene meccanicamente impressa sulla pellicola, ma è anche quella che si deposita miracolosamente nella nostra memoria collettiva (anch’essa, a ben vedere, fatta di immagini), il cineasta tedesco si pone consapevolmente sul limite labile e capriccioso che separa un fotogramma dal suo ricordo. Ne viene fuori un documentario sui generis più teorico e bello di quanto non appaia a prima vista, che ha forse il suo principale difetto di reiterare troppo spesso il suo assunto ingenerando, qua e là un’impressione di stanchezza e assenza di fantasia (il modello, già sperimentato con successo in Buena Vista social club di legare dal punto di vista audiovisivo le vecchie registrazioni di alcuni brani musicali più recenti esecuzioni degli stessi quasi a rendere la persistenza nel tempo della musica). Certo l’operazione riesce, probabilmente, soprattutto perché, nel film si parla di una forma di espressione, come la musica, che, nella sua evanescenza totale riesce ad essere nel “tempo” con la stessa aerea grazia di un ricordo (ce lo aveva detto meglio di altri Proust nella sua Reserche), ma ciò non toglie che The soul of man sia un’opera incredibilmente coerente e delicata. Un’opera riuscita, insomma, da parte di un regista che dopo gli splendori delle pellicole degli anni ruggenti del giovane cinema tedesco sembra sempre più perdere quella capacità che aveva dimostrato di restituire in maniera autoriale le proprie personali ossessioni. Operazione che, sembrerebbe, ormai riuscirgli completamente solo nei documentari musicali, ma che brilla ancora, portentosa, in sporadiche ispirate sequenze degli ultimi frammentari film di finzione.

(The soul of a Man); regia: Wim Wenders; sceneggiatura: Wim Wenders; fotografia: John L. Demps Jr; montaggio: Mathilde Bonnefoy; musica: Skip James, Blind Willie Johnson e J.B. Lenoir; interpreti: Skip James, Blind Willie Johnson e J.B. Lenoir; produzione: Margaret Bodde, Alex Gibney; origine: USA 2002

[luglio 2003]

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