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L’esorcista - La Genesi

Pubblicato il 17 settembre 2004 da Alessandro Izzi


L'esorcista - La Genesi

In fin dei conti già la vecchia edizione di L’esorcista firmata da Friedkin e recentemente riportata alla ribalta da una non proprio necessaria riedizione per le sale aveva, a modo suo, un piccolo prequel che respirava tutto nella suggestione del prologo iraqueno. Quella del grande regista losangelino era (soprattutto quando messa a confronto con la pellicola di Renny Harlin) una gemma acuminata di non detto tutta intessuta di suggestioni musicali e di arcane immagini misteriche, una sequenza capace, con poche inquadrature e mediante un montaggio fortemente espressivo, di rendere tangibile il sentimento di un male inquietante e suadente psicologico e interiore quanto mostruoso e minacciosamente esterno. Friedkin aveva capito fin dall’inizio che per narrare una storia che affonda le sue radici nell’orrore di un medioevo terribile e superstizioso è necessario andare a toccare il nervo dolente delle contraddizioni che sono alla base del difficile rapporto dell’anima cattolica con le immagini, il sofferto rapporto tra una cultura religiosa ormai millenaria e la sua stessa iconografia. Per lui, lo strazio del corpo, l’esibizione del dolore, la trasformazione del volto di una bambina in una maschera demoniaca, avevano una precisa componente sacrale, erano ancillari ad un preciso intento etico teso verso una riflessione sul nostro stesso essere al mondo e la nostra difficoltà a rapportarci con un altrove mitico e mistico al tempo stesso. La mutilazione del corpo della piccola Regan, insomma, aveva una precisa funzione drammaturgica e filosofica perché ci metteva a confronto con la realtà del dubbio, dell’impossibilità da parte di ciascuno di noi (non ha importanza se credente o meno) di accettare la possibilità che un Dio possa permettere tanto scempio. La messa in scena della dissoluzione del corpo, insomma, serviva essenzialmente come motore di dubbi, come fonte di incertezze, e doveva essere intesa come visualizzazione o esternazione delle incertezze che attanagliavano l’animo del prete chiamato ad esorcizzarla. La sfida aveva, quindi, luogo solo nella mente, ma trovava il suo franco terreno di espressione proprio nel territorio della visione, dell’immagine, di ciò che vedono i personaggi e, quindi, di ciò che il pubblico in sala è chiamato a vedere. La deformazione del corpo naturale, il suo abbruttimento sono, quindi, come nel medioevo, palese dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma non per questo risolvono il dubbio che l’uomo non riesce a non provare circa la possibilità che questo Dio sia davvero capace di amarci. Non stupisce, allora, che un prequel di un film di tale importanza possa avere solleticato le corde espressive di un autore di limpidità calvinista come Paul Schrader, inizialmente chiamato a girarlo; come non stupisce, stante la condizione attuale del pubblico contemporaneo, ormai abituato allo scempio quasi del tutto fine a se stesso (sono passati ormai i fasti dello splatter puro e semplice che faceva dell’esibizione del corpo un vero e proprio gesto eversivo), che la produzione abbia deciso, a film ormai ultimato, di assegnare la regia a un autore come Renny Harlin, che non ha mai davvero brillato per le sue intuizioni filosofiche, ma che ha sempre garantito un’efficace abilità nella messa in scena del sangue e del dolore. Già il fatto che siano le grandi produzioni ormai a prodigarsi in incursioni in un genere che, fino a poco tempo prima, era destinato solo agli indipendenti, dovrebbe puzzare un po’, ma, dopo la visione del film in sala, ci troviamo a dover ribaltare uno dei modi di dire più gettonati: può davvero esserci del fumo senza che dietro ci sia l’arrosto. L’esorcista versione Harlin è sicuramente un film abbastanza ben costruito, con scenografie epiche anche se mal sfruttate (bella la cattedrale nel deserto), ma che si appoggia su un immaginario ormai usurato in cui lo strazio della carne deve andare di pari passo con il consumo delle patatine (meglio se al gusto ketchup) che non alle riflessioni. Sangue ne scorre molto, il gore è ampiamente rispettato, ma delle apocalitihe visioni di Friedkin, come delle complesse elucubrazioni del suo successore (John Boorman aveva diretto il secondo e molto sottovalutato episodio della serie) non resta che l’ombra. I ragazzi saranno contenti di uno spettacolo di questa fatta. I cinefili un po’ meno.

regia: Renny Harlin; sceneggiatura: Alexi Hawley; fotografia: Vittorio Storaro; montaggio: Mark Goldblatt; musica: Trevor Rabin; interpreti: Stellan Skarsgard, Izabella Scorupco, James D’Arcy, remy Sweeney; produzione: Morgan Creek Productions, Dominion Productions; origine: Usa 2004; distribuzione: Eagle

[novembre 2004]

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