L’ultimo dominatore dell’aria

Quando si guarda L’ultimo dominatore dell’aria dal punto di vista dell’affabulazione pura e semplice si incorre in problemi seri che dovrebbero certificare la fine di Shyamalan come narratore. Non che la trama faccia acqua (semmai è composta di acqua come già Lady in the water), ma ha un avanzamento singhiozzante, incerto, colmo di ellissi che aprono voragini nel corpo della narrazione, lasciando, spesso, interi segmenti del racconto (spesso anche importanti) fuori visione, oltre i raccordi freddi di un montaggio estremamente brutale che sembra mettere da parte una delle caratteristiche dello stile di Shyamalan: il ricorso all’ampio piano sequenza che ammorbidisce i soprassalti in un’unità ulteriore (si pensi all’inquadratura ad altalena che chiude la splendida scena del finale di Signs). Lo spettatore segue, così, il racconto a fatica, coadiuvato solo dall’intervento delle voci fuori campo che ricompongono le sezioni narrative lasciate fuori traccia. Anche le sequenze che dovrebbero respirare di epica (il racconto di come il piccolo Aang, ultimo dominatore dell’aria, porti libertà nelle città che incontra nel suo viaggio) si risolvono in un’unica inquadratura goffa e priva di respiro in cui il piccolo protagonista, in campo lungo, ricaccia i nemici a suon di colpi di vento. L’esatta negazione di tutte le regole del montaggio durativo in una sequenza in cui, l’evento importante e catalizzatore sta addirittura in secondo piano, sullo sfondo.
Quando si guarda il film, invece, nella prospettiva dello sfruttamento delle potenzialità offerte dalla visione stereoscopica del 3D, si resta colpiti negativamente sia dalla totale assenza di immagini aggettanti che sfondino lo schermo per rivolgersi direttamente al pubblico, sia della parziale assenza di un gioco di profondità che risucchi lo spettatore all’interno dell’immagine evocata enfatizzando le possibilità della profondità di campo. Il film, insomma, che obbliga lo spettatore all’impiccio degli occhialini calati sul naso dall’inizio alla fine del film, non ha poi il piacere tutto scopico di vedere premiata la sua pazienza con un film avvolgente.
Da qualsiasi parte lo si guardi, L’ultimo dominatore dell’aria è un film che respinge. Respinge nell’impaginazione narrativa che accosta segmenti eterogenei senza risolversi a declinarli in un’unità superiore (fatto salvo il catartico momento del finale). Respinge nell’impaginazione visiva con inquadrature che danno spesso l’impressione di non essere sulla cosa, sul momento veramente importante, senza avere la consolazione di dedicarsi a dettagli forse incongrui rispetto alle aspettative del pubblico, eppure egualmente significanti.
Da queste premesse si dovrebbe concludere che L’ultimo dominatore dell’aria è la certificazione della totale fine dell’estro di Shyamalan, un estro che, i detrattori non tarderanno a dire, si era già esaurito con quel mitico The Sixth Sense che era stata l’unica opera passabile di un regista sopravvalutato.
In realtà come tutti i poliedri che il regista ha sin qui consegnato alla sala cinematografica, i due punti di vista restano parziali e falliscono il bersaglio. Perché il cinema non è fatto né di sola narrazione, né di sola visione. Questa semmai è la formula dei blockbuster e difficilmente si può dire che L’ultimo dominatore dell’aria sia tale anche se ne indossa, fin dalla locandina, la maschera. Viceversa l’ultima pellicola del maestro di origini orientali è opera che miscela insieme stilemi di un narrare tipicamente americano con stilemi assolutamente orientali alla ricerca di un amalgama impossibile. Certo, ad una prima visione, L’ultimo dominatore dell’aria può apparire come uno degli ultimi bignami dedicati dal cinema alla filosofia buddhista, con tutte le sue frasi fatte sugli equilibri taoisti dell’universo e la presenza degli spiriti nel mondo più scettico dei vivi, ma queste frasi fatte non passano mai su linee di visione accattivanti. Sono dette sul corpo di un film che resta impermeabile sotto le voci quasi nella costituzione di due mondi distinti che si sfiorano sempre incrociandosi raramente, con somma insoddisfazione dello spettatore, fino alla parziale agnizione del finale che è, come sempre in Shyamalan, risolutore, ma, questa volta, fino ad un certo punto (e si ricordi che The last airbender è il primo capitolo di una serie di film e che se agnizione vera deve esserci essa va rimandata alla chiusura dell’intero ciclo e non del singolo capitolo).
In fin dei conti tutto il cinema di Shyamalan è sempre stato fondato sull’interpretazione dei segni di una realtà ulteriore sparsi del mondo. Questi segni sono sotto la superficie delle cose (visione orientale), ma devono essere interpretati, compresi, definiti secondo un modello più smaccatamente occidentale e per questo individuale. La reinterpretazione dei segni sparsi del mistero passa attraverso lo sguardo del protagonista fino a ribaltarsi sulle aspettative del pubblico in sala che con quello sguardo aderisce completamente. L’ultimo dominatore dell’aria è, forse, il film di Shyamalan in cui le tessere del mosaico dell’esistenza sono più tragicamente squadernate e in cui, forse anche in conseguenza di ciò, non è ammesso un unico protagonista al cui punto di vista lo spettatore possa conformarsi (Aang più che un protagonista in senso occidentale è il catalizzatore delle esigenze di un intero mondo, come è l’unico in grado di dominare tutti e quattro gli elementi). Più vicino a The happening in cui il discorso era sì individuale, ma soprattutto sociale, The last airbender è un film che mette al centro del suo discorso una collettività che ha perso la capacità di interpretare il mondo e che deve imparare, prima di ogni altra cosa, a raccontarsi. E per farlo deve passare attraverso il ricongiungimento della parola con l’immagine, della frase fatta con l’esperienza della cosa.
Raramente ci è capitato di imbatterci in un film così profondamente consapevole delle proprie premesse teoriche (in un cinema come quello di Shyamalan che cerca sempre il punto di fusione tra la cerebralità dell’intreccio e l’emozione del percorso messo in scena). Il suo meccanismo adamantino sarà una delusione per i più, ma è segno di un cinema che non smette mai di interrogarsi su se stesso anche se le risposte alle domande sono spesso suicide. Il che è un problema solo qui in Occidente.
(The Last Airbender); Regia: M. Night Shyamalan; sceneggiatura: M. Night Shyamalan; fotografia: Philip Messina, Andrew Lesnie; musica: James Newton Howard; interpreti: Noah Ringer, Nicola Peltz, Jackson Rathbone, Cliff Curtis, Dev Patel, Jessica Andres; produzione: ScottA versano, Frank Marshall, M. Night Shyamalan per Blinding Edge Pictures e The Kennedy/Marshall Company, Paramount Pictures; distribuzione: Universal PIctures International Italy; origine: USA 2010; durata: 103’
