L’uomo del treno

L’homme du train è la celebrazione del Caso e del Destino, la storia dell’incontro impossibile e poetico di due vite totalmente diverse che si attraggono l’una verso l’altra con la quieta furia di un magnetico fascino discreto. La storia si svolge in un’anonima città di provincia, al di là di una stazione ferroviaria che, con i suoi treni in continuo passaggio, crea, nello spettatore come nei personaggi, la costante impressione di un “altrove” lontano, esotico, eppure così apparentemente a portata di mano che basterebbe la spesa di un biglietto per poterlo afferrare. Dall’ultimo di questi treni, un locale, scende Milan, un uomo dallo sguardo stanco, con una borsa logora e le scarpe consumate dal troppo aver viaggiato. Anzi il Viaggio è a tal punto radicato nel personaggio (e non possiamo non rintracciare in questa dimensione delle connotazioni quasi simenoniane nel tratteggio psicologico dello stesso) che aderisce sul suo volto e sul suo corpo stanco come fosse uno strato di seconda pelle, privandolo di ogni forma di passato, di ogni tipo di radice: egli viene dal nulla e al nulla sembra destinato a fare ritorno. L’uomo che ha il progetto di rapinare la banca locale, ha sempre vissuto di espedienti, conducendo un’esistenza borderline che non gli è mai appertenuta davvero. Da qualche parte, sepolta nel suo cuore c’è sempre stata l’impressione che una vita diversa era possibile: una vita medio borghese e rassicurante, consumata nel rito di una pipa serale, fumata dedendo su una calda poltrona, indossando comode pantofole e accompagnando, magari, oziosi pensieri con un buon bicchiere di porto. In città Milan incontra Manesquier (Jean Rochefort, straordinario nel suo ruolo), un professore di letteratura in pensione che ha sempre sognato avventure di ogni tipo, ma ha sempre avuto paura di quel piccolo passo che conduce sulla porta sulla soglia di casa e mette in strada. Tra i due nasce un’amicizia silenziosa che scopre, al di là delle differenze palesi, un comune desiderio per una vita diversa e, confusamente dappincipio, ma poi in maniera via via più consapevole, i due cominciano a sognare di avere l’uno la vita dell’altro. Nell’incontro assolutamente improbabile (come di norma in tutti i film del regista francese) tra due personaggi che sono escherianamente (o, se preferite, borgessianamente) l’uno il sogno dell’altro, Leconte racconta tutto il rimpianto che prova una persona costretta a vivere una vita che non riesce a sentire realmente sua e tutta la paura che deriva dal rendersi conto che basterebbe così poco per cambiare le carte che il destino ci ha messo tra le mani. Ed in questa descrizione trepida ed appassionata troviamo sicuramente uno degli aspetti migliori di tutta questa pellicola, certo affascinante, ma con un sapore di troppo calcolata poesia da non apparire, purtroppo, frutto di un piano appositamente studiato a tavolino. In ogni caso l’autore conduce il racconto con mano raffinata, memore, da una parte, delle atmosfere del grande noir francese (Prevert e Simenon la fanno da padroni) e, dall’altra parte, di certi strattismi simbolici che vorrebbero ricordare certe esperienze bunueliane, ma che paiono più imparentate con certe tele di Magritte. Ne viene fuori un racconto metaforico a tratti molto felice (merito, soprattutto, dello splendido cast impegnato) a tratti troppo meditato. In una trama fitta di rimandi al cinema del passato, stupisce, comunque, la straordinaria carica musicale del racconto, impostato veramente quasi fosse uno splendido concerto solista con due personaggi-strumenti che si inseguono tra le righe del pentagramma. Una sorta di sonata per pianoforte a quattro mani in cui, secondo le regole arcane del contrappunto, le mani dei due esecutori, finiscono per intracciarsi, per un solo, breve momento, in un accordo di aerea bellezza.
(L’homme du train); Regia: Patrice Leconte; Interpreti: Jean Rochefort, Johnny Hallyday, Edith Scob; Origine: Francia, 2002
[settembre 2002]
