La 25a ora

Indubbio vincitore morale dell’ultima edizione della Berlinale, dove è stato accolto da un generalizzato entusiasmo di pubblico e critica ma è stato incomprensibilmente ignorato dalla Giuria, il quattordicesimo lungometraggio di Spike Lee, ha però spiazzato un po’ tutti, soprattutto i cinefili e i fan del regista afroamericano. E non soltanto per la non piccola ragione che La 25a ora è il suo primo film a non avere a soggetto la comunità black e le sue tensioni, ma anche e soprattutto per il tono e lo stile caldo e affettuoso con cui rende omaggio alla New York ferita del post-11 settembre. Una città bellissima nella fotografia nebbiosa e cristallina di Rodrigo Prieto (Frida), con la leggendaria sky-line ridisegnata da due fasci di luce blu e dalla musica di Terrence Blanchard. Spike Lee ha tratto il film che sembra preannunziare una nuova e differente fase della sua carriera, dall’omonimo romanzo di David Benioff (già nelle librerie italiane), scritto ben prima dell’11 settembre e opzionato in precedenza dall’attore Tobey Maguire, il divo ’’adolescente’’ lanciato da Spider-Man, che lo ha prodotto insieme alla società di Lee, la ’’40 Acres and a Mule Filmworks’’. Nella fantasia dello scrittore, a cui si deve anche la sceneggiatura, i ponti di Manhattan e la passeggiata lungo il fiume Hudson con le sue panchine fantasma diventano dei paesaggi dell’anima che accolgono le ultime ore di libertà del protagonista Monty Brogan, interpretato da uno strepitoso Edward Norton. Condannato a sette anni di carcere per spaccio di stupefacenti, Monty sta per dire addio alla sua città, ai sogni di ricchezza facile, alla vita lussuosa che ha condotto fino a quel momento, dopo aver sacrificato tutte le sue ambizioni in nome del Dio denaro che permette di acquistare tutto, anche la felicità. Durante le ultime venticinque ore di libertà del titolo, il protagonista fa il punto della sua vita, cercando di recuperare il legame con il padre legato alle sue roots irlandesi e incontrando gli amici più cari: Jakob, un’insegnante mezzo fallito e sessualmente insoddisfatto, Slaughtery, il broker schizzato e cinico, e naturalmente Naturelle (una splendida Rosario Dawson), la sua ragazza che si sospetta essere l’autrice della soffiata alla polizia che ha portato ad incastrato. Una cosa è chiara: Monty non ha più certezze a partire dal possibile coinvolgimento di Naturelle nel suo arresto , ma per una volta il tempo lo costringe a prendere decisioni importanti e definitive. L’aspetto più originale di questa storia di quasi banale quotidianità metropolitana, è che il trafficante di droga tratteggiato da Norton e da Lee non sia il solito balordo da bassifondi ma quasi un tipico abitante della Grande Mela. Disincantato, abito nero, portamento intellettuale, casa al Village, il quartiere con i mattoni rossi, le scalette di pietra e le ringhiere che tante volte abbiamo visto al cinema, Monty è un autentico dandy del malaffare. Così Norton, nei panni del pusher bello&tormentato, diventa una specie di coscienza sporca e sublime della città, una sorta di martire e simbolo di New York. Ecco dunque riemergere nelle contraddizioni di questo personaggio e nella descrizione del suo ambiente la forza sferzante, politicamente scorretta e liberatoria, del cinema di Spike Lee. Che qui in un’opera scarsa d’azione ma acutissima nel scandagliare la psicologia del profondo ci consegna nelle pieghe del discorso più che in aperte dichiarazioni un ritratto memorabile della civiltà americana. A cui gli autori concedono però una sorta di prova d’appello: nel suo viaggio in auto verso la prigione il protagonista ha un sogno, una ’’25a ora’’. Un sogno pop e rasserenante: lui e Naturelle uniti in una forse impossibile utopia familiare - in questo tempo metaforico concesso dal cinema e dall’immaginario ad un’altra vita, Monty è riuscito a fuggire, ma solo per un attimo. La città delle Twin Towers saluta il ritorno alla realtà dell’uomo che immaginava una vita troppo facile e lo accoglie con il benvenuto di coreani, indiani, africani, russi, ebrei, arabi, gialli, bianchi, neri, insomma del popolo, della gente di New York. Ad essa Lee invia una sorta di maledizione affettuosa in una formidabile sequenza che resterà impressa nella memoria di ogni amante di cinema come un acido contraltare alla celebre dichiarazione d’amore di Woody Allen in Manhattan. E’ New York dunque a restare la Regina, la città del 2003, e non Chicago, come vorrebbero suggerirci con troppa semplicità gli Oscar.
regia: Spike Lee sceneggiatura: David Benioff dal suo romanzo omonimo fotografia: Rodrigo Prieto montaggio: Barry Alexander Brown scenografia: James Chinlund musica: Terrence Blanchard interpreti: Edward Norton, Philip Seymour Hoffman, Barry Pepper, Rosario Dawson, Anna Paquin, Brian Cox, Tony Siragusa produzione: Spike Lee, Jon Kilik, Tobey Maguire, Julia Chasma per 40 Acres and a Mule Filmworks origine: USA 2003 durata: 135’ distribuzione: Touchstone Pictures distribuzione italiana: Buena Vista International Italia
