La banda

«Quando ero ragazzino, la mia famiglia ed io avevamo l’abitudine di guardare i film egiziani. Negli anni ottanta, questa era una consuetudine tipica delle famiglie israeliane. [...] In realtà, era una cosa piuttosto strana per un Paese che aveva passato metà della sua esistenza in uno stato di guerra con l’Egitto e l’altra metà in una sorta di fredda pace con i nostri vicini meridionali». Sono le parole del trentacinquenne Eran Kolirin, sceneggiatore e regista all’esordio sul grande schermo, a poter felicemente sintetizzare La banda (presentato a Cannes 2007 nella sezione Un Certain Regard, dove ha vinto il Premio Fipresci e il Prix de la Jeunesse), un film nato sotto il segno di una profonda carica di umanità che sa destare meraviglia per tutti i suoi novanta minuti di durata. Perché sa raccontare di un conflitto decennale, ma sorvolandolo con leggerezza: come se la pace fosse sempre possibile, quando vi sia un incontro tra individui, mai complici dei massimalismi della Storia.
La banda della polizia di Alessandria d’Egitto, guidata dal severo e riservato colonnello Tewfiq (Sasson Gabai), arriva in Israele per esibirsi in occasione dell’inaugurazione di un centro per la cultura arabo-israeliana in una minuscola cittadina. Giunti all’aeroporto, nessuno verrà a prendere i nostri eroi. Cercheranno di raggiungere da soli l’agognata meta, ma, a causa di un errore di pronuncia, si ritroveranno in un’altra cittadina nel deserto, un surreale non-luogo simile a tante periferie del mondo: tanto che Dina (Ronit Elkabetz), la fiera, carnale e spiritosa ’popolana’ che li accoglierà ed ospiterà con l’aiuto di alcuni suoi amici, dirà che «Qui non ci sono centri culturali. Non c’è cultura né araba, né israeliana. Qui non c’è cultura». Prigionieri per una notte in un posto che non appartiene a loro, e che forse a nessuno appartiene, vivranno esperienze di amicizia e anche d’amore – forse - ma comunque di reale vicinanza, dimentichi di qualsiasi precedente e futuro conflitto.
Forse proprio l’assenza di cultura permetterà uno scambio, anche fisico: seppure fugace e fuggevole quanto la notte, sarà comunque sentito, perché necessario, come qualsiasi altro rapporto. E faranno da ponte la lingua e la musica anglosassoni, in particolare: culture di un altro luogo per fare in modo che dei non-luoghi comunichino tra di loro.
Il film viene messo in risalto da una messa in scena scarna, regno del silenzio e di poche e sentite parole, così come di poche ma essenziali frasi musicali: ogni aspetto è ben bilanciato con gli altri, senza mai risultare invasivo nei confronti dello spettatore. La sceneggiatura, in particolare: ogni personaggio, dal più importante al minore, ha il suo degno spazio nel quale muoversi e grazie al quale toccare la nostra sensibilità, ognuno parte fondamentale di un Tutto, un tutto ben diretto dallo sguardo ’oggettivo’ di un esordiente di talento, che sa ben dosare lo humour e la malinconia, unendo il dramma alla commedia, ma raffreddando il tutto a dovere, abbattendo qualsiasi barriera divisoria tra i generi (così come tra le culture) senza mai risultare didascalico e restituendoci la vastità e la piccolezza della Vita. Sapendo destare una meraviglia che ha quasi del miracoloso.
(Bikur Ha-Tizmoret); Regia, soggetto e sceneggiatura: Eran Kolirin; fotografia: Shai Goldman; montaggio: Arik Lahav Leibovitz; musica: Habib Shehadeh Hanna; interpreti: Sasson Gabai (Tewfiq), Ronit Elkabetz (Dina), Saleh Bakri (Haled), Khalifa Natour (Simon); produzione: July August Productions, Bleiberg Entertainment, Sophie Dulac Productions; distribuzione: Mikado; origine: Israele e Francia 2007; durata: 90’; web info: sito ufficiale.
