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La banda Baader Meinhof

Pubblicato il 1 novembre 2008 da Carlo Dutto


La banda Baader Meinhof

Una pietra lanciata contro una vetrina è un atto criminale, mille pietre sono un’azione politica. (la giornalista Ulrike Meinhorf, da uno dei suoi articoli)

Storie di terrorismo scuotono il festival del cinema di Roma, storie di una Germania che getta uno sguardo autoriflessivo su uno dei momenti più bui e controversi della propria storia post-nazista. Il decennio 1967-1977 che terrorizzò, insanguinò e scosse l’opinione pubblica di una Germania Ovest sotto l’influenza occidentale e non per questo priva di enormi contraddizioni, succube di un regime simile a quello della vicina parte Orientale. Se da una parte le lunghe ombre di Schattenwelt sono quelle di un terrorista della Raf che, uscito di prigione dopo 20 anni, deve fare i conti con un passato agghiacciante, dall’altra assistiamo alla genesi della Banda Baader Meinhof che di quel decennio è stata assoluta protagonista. Tra le due pellicole, nessun indugio nel selezionare quest’ultimo come film più riuscito. Tre lustri dopo il capolavoro che Margarethe von Trotta firmò descrivendo la storia della Raf attraverso la sfera privata di una terrorista in Anni di piombo, giunge al Festival di Roma l’atteso Der Baader Meinhof Complex del regista Uli Edel.

Una “missione” sembra essere quella che spinge una giovane, borghese e progressista giornalista di nome Ulrike Meinhof a unirsi al gruppo armato della RAF - Rote Armee Fraktion – in una scena che è metafora stessa del gesto politico: dopo un momento di riflessione, la giornalista salterà fisicamente e politicamente la finestra, la barricata da dove poco prima era fuggito Andreas Baader, in una delle prime azioni di lotta della banda. Una banda che farà il “salto di qualità” aprendosi alle azioni terroristiche quali attentati a posti di polizia, rapimenti, uccisioni di industriali, proprio come nelle Brigate Rosse fece Moretti dopo la cattura del fondatore Renato Curcio. Molte, curiosamente le affinità che si possono ravvisare con il gruppo terroristico italiano, a partire dalla descrizione delle azioni dei rapimenti, che tanto ricordano quello di Aldo Moro (da molte voci si sente infatti che il “capo” della banda di fuoco che rapì lo statista Dc fosse capitanato da un esperto killer al soldo della Raf). In nome di una "nuova moralità", per “un’operazione esistenziale”, la Banda entra nella clandestinità assoluta, si esercita militarmente a partire dal 1970 nel deserto della Giordania nei campi gestiti dai palestinesi. Raggiunge picchi di popolarità che fanno impallidire i vertici delle polizie segrete (in testa il personaggio interpretato da un lunare Bruno Ganz) secondo cui uno su quattro sotto i 30 anni simpatizzava per le azioni terroristiche.

Quindi, il tracollo, i primi arresti, le uccisioni, lo smembramento della prima generazione di Raf. Si aprono le porte del carcere per Baader, Meinhof e altri e si apre un secondo film. Stilisticamente infatti il regista sceglie di raccontare la discesa agli inferi della Banda con un tocco più surreale, raccontando la disperazione della detenzione in isolamento con scene oniriche, immerse in un colore più virato al bianco, al neutro, alla stasi. Seguiamo il lento deterioramento psico-fisico dei detenuti, il suicidio della Meinhof e le morti sospette degli altri alternando scene dei processi e dell’attività politica che malgrado tutto continuava dietro le sbarre.

Il regista Uli Edel sceglie la via del racconto di cronistoria della Banda, partendo dal libro datato 1985 del giornalista di Der Spiegel Stefen Aust, non lesinando momenti di introspezione e di dilatazione temporale e andando a scegliere spesso anche la via dell’onirico per raccontare i subbugli interiori di “esseri umani che sbagliavano”. Una cronistoria che ha inizio dalla genesi della banda, che si vuole assestare al 2 giugno 1967, data in cui fu ucciso uno studente per le strade di una Berlino invasa dalla contestazione sessantottina. La ricostruzione storica ma soprattutto l’attenzione alla ricostruzione delle azioni della banda risuonano di un realismo oculato e mai palesemente di parte. Il regista la chiama Drammaturgia a pezzi, il racconto che non esalta eroi descrivendo le azioni dei terroristi, non rende epica dal sangue. Ci riesce anche evitando esaltazioni stilistiche quali dolly o particolari movimenti di macchina. E’ la macchina a mano a regnare sovrana, la camera-stylo che scrive un resoconto, una cronaca, che fa vivere lo spettatore nella violenza di una manifestazione bagnata di sangue dalla polizia, in una fuga a un posto di blocco, nella vita quotidiana della clandestinità (leggere Il fuggiasco di Massimo Carlotto per credere).

Il cast quasi stellare teutonico, propone gli attori più sulla ribalta al momento, scelti e “manipolati” da trucco e parrucco per somigliare il più possibile ai personaggi reali. In particolare i due protagonisti, Moritz Bleibtreu, che interpreta il carismatico, folle Andreas Baader e soprattutto si ricorda a imperitura memoria l’interpretazione di una Ulrike Meinhof da parte di Martina Gedeck, già protagonista de La vita degli altri. Un film che non vuole instillare morali, ma che, pur nella sua complessità interessante di cronistoria, spesso sembra non voler “osare” una maggiore introspezione nelle ragioni, sogni e frustrazioni di una generazione, senza comunque inficiare il buon risultato finale.

Carlo Dutto


CAST & CREDITS

(Der Baader Meinhof Complex) Regia: Uli Edel; sceneggiatura: Stefan Aust, Bernd Eichinger, Uli Edel; fotografia: Rainer Klausmann; montaggio: Alexander Berner; musica: Peter Hinderthür, Florian Tessloff; interpreti: Martina Gedeck (Ulrike Meinhof), Moritz Bleibtreu (Andreas Baader), Bruno Ganz, Johanna Wokalek (Gudrun Ensslin), Nadja Uhlt, Alexandra Maria Lara; produzione: Bernd Eichinger; distribuzione: Bim; origine: Germania, 2008; durata: 149’;


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