LA BESTIA NEL CUORE
Cristina Comencini ha studiato molto. E si vede! Ha studiato la lezione corale di certo cinema di Bergman e si è fatta prendere da quel senso della colpa e del peccato tipico della tradizione protestante incarnata dal regista e l’ha poi addolcita con quei toni di commedia agrodolce che sono propri di quell’italietta cattolica di cui non si vergogna di essere estrema esponente. Ha studiato con doviziosa attenzione, in quelle notti insonni che vengono affrontate solo con il puntiglio di chi ha la presunzione di dover essere assolutamente “prima della classe”, la lezione di tutto il cinema memoriale, Resnais in testa, con il rincorrersi di flash-back sfalsati, di luoghi della memoria che cambiano mano a mano che il ricordo riesce a farsi più vivido o più sfocato. Ha studiato con limpida precisione orologiaia i meccanismi mucciniani (Giovanna mezzogiorno, alla fin fine, viene proprio da lì) di una messa in scena che plana come un’aquila su tutti i grandi temi esistenziali trasformandoli, allo sguardo, in caleidoscopiche superfici spettacolari che tanto possono piacere al pubblico televisivo di oggi. E, a proposito di televisione, ha studiato con grande ostinazione, la paludata esibizione della sofferenza presente nei programmi trash dell’italico elettrodomestico dalla De Filippi a Carramba per poi criticarla dal di dentro a parole (quelle del regista felliniano costretto a sfornare fiction), ma finendo per attestarsi su una specie di “comune sentire” che vanifica ogni sforzo. E, dopo tanto studio, la Comencini si è, quindi, sentita abbastanza pronta per sciorinare, con la dovuta precisione, il suo rosario di sciagure tutte poste all’interno di un temino scolastico che comincia, oltrettutto, con sciagurata inversione delle regole d’impostazione di una classica tesi di laurea, con una sostanziosa bibliografia: la carrellata iniziale di volti e memorie del grande cinema che l’ha preceduta e da cui ha avuto l’ardire di attingere a piene mani. Si sente esponente di un grande cinema la Comencini. Si sente frutto finale di una tradizione veneranda e bella. Sente di poter cominciare a muoversi nella realtà dorata del cinema italiano senza dover più sottostare all’ingombrante ombra di un padre come Luigi che, come un convitato di pietra, indica al presente i tempi migliori di una commedia perduta. E, sia detto ad onor del vero, La bestia del cuore ha almeno l’ambizione di volersi espressione di un’autorialità più europea, è una pellicola che, se non altro, cerca il confronto con esperienze di cinema che non siano solo quelle del Bel Paese e del mal costume turistico e televisivo. Tra tutti i film italiani in concorso a Venezia, quest’ultima fatica della Comencini, è davvero l’unica a porsi con convinzione l’obiettivo di un’apertura internazionale. L’unica ad ambire se non altro a mettersi in competizione con un cinema, quello mondiale, sempre più afasico e singhiozzante, ma comunque più vivace, ricco e denso di prospettive del nostro. Sarà per questo motivo che, all’uscita, parte della stampa ha gridato al miracolo e ha approfittato della visione di un film modesto e saccente (come è in fondo questo) per tentare di sfatare il mito di una critica italiana pervicacemente protesa a parlare sempre male del proprio stesso cinema. Ma questi peana speranzosi non sono altro, in fondo, che l’espressione di un nostro paradossale e progressivo abituarci al “peggio”. E La bestia nel cuore, alla fine, è proprio questo peggio, o, perlomeno, una delle sue espressioni più compatte e marcate. È, in effetti, il frutto maturo e succoso di un albero ormai morto da tempo. Un film, insomma, che non rischia mai di voler apparire maleducato o politicamente scorretto. Che non accetta di piegarsi alle regole di un genere perché ha la presunzione di poter fare meglio e di più. Un film che sciorina una doviziosa catena di sciagure (ogni personaggio ha il suo dramma stampato a chiare lettere sulla fronte) senza mai interrogarsi sul loro senso nella realtà contemporanea. Un film che chiama a sé un cast di levatura commerciale impressionante (mancano solo Accorsi e il giovane Muccino) a segno di una strategia divistica tutta tirata verso il botteghino e mai verso i personaggi (e la Coppa Volpi alla Mezzogiorno è uno scandalo che grida vendetta). Un film, infine, dove i temi importanti da affrontare (la pedofilia tra le mura di casa, l’omosessualità, le crisi personali e familiari) sembrano scelte con quell’attenzione che ci vuole per comporre un rotocalco televisivo e non per seguire l’onda di un’urgenza espressiva reale. Il tutto a produrre niente più che un temino scolastico composto con una grammatica attenta, senza sostanziali errori di ortografia cui si potrebbe dare, al Liceo, un bell’otto, ma che è da dimenticare in un cassetto di ricordi, quando, finita la scuola, si deve entrare nella vita vera.
(Id.); Regia: Cristina Comencini; sceneggiatura: Francesca Marciano, Cristina Comencini, Giulia Calenda. Tratto dall’omonimo romanzo di Cristina Comencini, edito da Feltrinelli; fotografia: Fabio Cianchetti; montaggio: Cecilia Zanuso; musica: Franco Piersanti; interpreti: Giovanna Mezzogiorno, Alessio Boni, Stefania Rocca, Angela Finocchiaro, Luigi Lo Cascio; produzione: Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz per CATTLEYA e RAI CINEMA; distribuzione: 01 Distribution
[Settembre 2005]
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E La bestia nel cuore, alla fine, è proprio questo peggio, o, perlomeno, una delle sue espressioni più compatte e marcate. È, in effetti, il frutto maturo e succoso di un albero ormai morto da tempo. Un film, insomma, che non rischia mai di voler apparire maleducato o politicamente scorretto