La bottega dei suicidi

Con La bottega dei suicidi, Patrice Leconte si misura per la prima volta nella regia di un film d’animazione adattando il romanzo Le magasin des suicides di Jean Teulé. Il titolo lascia subito intuire l’impronta gotica utilizzata per parlare del lato più buio della vita, la morte, attraverso la veste del cartoon, escamotage per esorcizzare il tema. Il pensiero corre veloce alla cupezza cool degli Addams e ai personaggi dark nati dalla mente geniale del maestro del gotico, per eccellenza, Tim Burton, ma Leconte si distacca da tutto ciò, pur sfiorando il sentiero.
Gli abitanti di una città avvolta da una profonda depressione, sono alla ricerca di una via di uscita e l’unica speranza è il suicidio, diventato così comune che, addirittura è prevista una multa per coloro che lo praticano in strada. L’unica “assurda” luce è la bottega dei suicidi di Mishima Touvache e famiglia, composta dai genitori e due figli, tutti equamente macabri e tristi. La bottega è un luogo magico, considerato l’oasi dell’infelicità grazie al motto “se la tua vita è andata in malora fa della tua morte un successo”. Ognuno può trovare la fine che più gli aggrada scegliendo fra classiche corde, ricercati veleni o, adatto per i più sportivi, il metodo Seppuku. Complice lo slogan “trapassati o rimborsati” il negozio è affollatissimo e va tutto cupamente bene, fin quando non nasce Alan, terzo genito dei Touvache che disgraziatamente è la rappresentazione umana della gioia di vivere. Inutili i tentativi da parte dei genitori di convertirlo alla tristezza e depressione, in modo tale che non intralci l’attività di famiglia, ma il ragazzo non riesce a smettere di sorridere e essere felice, fino al punto di progettare un sabotaggio dell’attività stessa.
Dettagliata e originale è la descrizione di una città avvolta dalla cupezza che paradossalmente rimane in vita solo grazie alla strumentalizzazione della sofferenza altrui, anzi della morte stessa. Il punto di forza è proprio lo status criminoso dell’attività di famiglia in quanto fonte di guadagno, ma il film perde mordente perché imbocca la via dell’amore e della felicità fino ad essere stucchevole. Questa impronta buonista che il regista imprime, si allontana dal pessimismo marcato con il quale, invece, l’autore del romanzo chiudeva il cerchio con un’ulteriore morte che “stranamente” conferiva alla storia una redenzione. Il negozio si trasforma in una ex bottega dei suicidi, comincia a dispensare altro, anche se all’occorrenza può fornire per il depresso di turno un pizzico di veleno, in ricordo dei bei tempi andati.
La debolezza del film è l’apologo morale che bolla, con un confine troppo netto, il grigiore e la tristezza di un mondo cupo che ha imparato a lucrare sui dolori altrui ed esalta troppo facilmente il lato opposto. Il libro e il film ad un certo punto si separano, ma focalizzandosi sulla pellicola ne emerge un vero inno alla vita, che può essere visto come un gesto audace di Leconte per far cogliere solo il lato positivo della storia ai bambini, visto che si tratta di un cartone, uscito oltretutto nelle sale durante le feste natalizie. Gli adulti è probabile che vedranno in questo aspetto una sbafatura, ma il prodotto è comunque godibile.
(Le Magasin des suicides); Regia e sceneggiatura: Patrice Leconte; montaggio: Rodolphe Ploquin; musica: Etienne Perruchon; produzione: Diabolo Films, La Petite Reine, ARP Sélection, France 3 Cinéma, Entre Chien et Loup, RTBF; distribuzione: Videa-CDE; origine: Belgio, Canada, Francia 2012; durata: 85’; webinfo: Sito ufficiale
