La canzone più triste del mondo

L’estate, si sa, è il periodo in cui i distributori scongelano i film che erano rimasti nei fondi dei loro mai troppo capienti freezer. In genere è robaccia, ma qualche volta capita la perla.
The saddest music in the world, film di Guy Maddin acuminato e brillante come un gioiello è stata, forse, una delle poche cose realmente irrinunciabili della sessantesima edizione del Festival di Venezia (parliamo, quindi, di ben quattro anni fa).
E, come tutte le cose irrinunciabili, bisognava andare a scavarlo non nelle sezioni principali del Concorso o di Controcorrente (mai così povere come nell’annata 2003), ma in quella vetrina spesso fin troppo variegata dei Nuovi territori.
Dietro la scanzonata e apparentemente banale storia (ma la sceneggiatura che da oltre dieci anni gironzolava tra gli autori e gli studi come un fantasma è di Kazuo Ishiguro, lo stesso autore del romanzo da cui è stato tratto Quel che resta del giorno) del concorso indetto da una produttrice di birra canadese per trovare la canzone più triste del mondo si cela in realtà un discorso esistenziale e politico di inaudita efficacia.
Ambientato nel pieno della Grande depressione americana, con tutti i problemi connessi all’aumento del costo della vita e del proibizionismo, l’opera di Maddin è prima di tutto un pamphlet sul senso della sofferenza e sul fatto che, nella nostra società attuale così profondamente competitiva su tutti i fronti, anche il dolore e il desiderio di essere consolati e compatiti deve temere la concorrenza di tutte le persone che ci circondano.
Maddin racconta questa storia con acutissimo senso del ritmo cinematografico con sequenze video che ricalcano le soluzioni formali di certi film degli anni ’30 e ’40 americani, ma che, specie per certi dettagli luministici e per l’uso distorto delle scenografie palesemente false, sembrano essere rilette alla luce della logica deformante di certo espressionismo cinematografico.
Da questo inusuale accostamento di stili e tecniche di ripresa il regista ricava un’opera in cui il salto di tono parodistico è all’ordine del giorno e in cui la sotteranea e mai sopita ironia riesce sovente a trascolarare nel più ghignante sarcasmo.
Il film si rivela un prosieguo ideale sia della poetica del regista che, contemporaneamente di quella molto diversa dello sceneggiatore avverando un ideale di collaborazione autoriale come di rado se ne vedono nell’industria cinematografica odierna.
Se da una parte, infatti, il film sembra essere la prosecuzione ideale di un discorso storico/politico sulla società contemporanea che parta dal bisogno di cercare nel passato le radici del male di oggi come già accadeva anche in Dracula: pages from a Virgin diary (sempre dello stesso regista), dall’altro lato si palesa un’evidente continuità con tematiche care ad Ishiguro come la difficoltà di esprimere i propri sentimenti e di renderli comprensibili alle persone che ci circondano.
Le due diverse anime del discorso trovano, comunque, proprio nella maschera del divertimento ironico e scanzonato il proprio punto di fusione stilistica e definiscono il modello per un’operazione autoriale di grande efficacia.
Maddin è un visionario come ce ne sono pochi oggi e le sue opere riescono a creare, ogni volta, un vero e proprio precedente per una riflessione che sia contenutistica che estetica.
La ricerca sul linguaggio della telecamera viene portato avanti in un discorso squisitamente autoreferenziale che lascia ammirati per la coerenza e l’intelligenza che lo sostanziano.
Un film da recuperare a qualsiasi costo.
(The saddest music in the world); Regia: Guy Maddin; sceneggiatura: Kazuo Ishiguro, Guy Maddin, George Toles; fotografia: Luc Montpellier; montaggio: David Wharnsby; musica: Christopher Dedrick; interpreti: Isabella Rossellini (Lady Helen Port-Huntley), Mark McKinney (Chester Kent), Maria de Medeiros (Narcissa), David Fox (Fyodor Kent), Ross McMillan (Roderick Kent/Gravillo il Grande); distribuzione: Fandango; origine: Canada, 2003; durata: 100’
