LA CONTESSA BIANCA

In un film, al di là della storia e della componente visiva c’è qualcosa di più. Sempre. Compito di un bravo regista è di far recepire al suo pubblico quell’aldilà, quell’idea o emozione o sensazione che sottende il tutto.
James Ivory, 78 primavere sulle spalle, ci è riuscito con La Contessa Bianca, film che solo da un punto di vista superficiale può sembrare una visione occidentale in costume della Shangai degli anni ’30. Il luogo del film, questa àncora spazio-temporale gettata nel mare storico dallo scrittore e sceneggiatore Ishiguro Kazuo, è di secondaria importanza, funge da sfondo alla storia che avrebbe potuto essere ambientata indifferentemente durante la Guerra dei Balcani, o durante qualsiasi altro conflitto mondiale, nazionale o sociale, con egual risultato. E gli stessi personaggi sono i rappresentanti di una specie umana generica, idealizzata, con attributi fisici e sociali di fortuna, tali da poter essere ciechi quanto sordi, aristocratici decaduti quanto donnacce di strada. Lo stesso Ivory lo ha affermato durante la conferenza stampa: rispondendo ad una giornalista che gli chiedeva cosa sarebbe cambiato nel film se il personaggio principale non fosse stato cieco, lo scaltro vegliardo ha detto che “il film sarebbe stato semplicemente più veloce!”. Nient’altro. Sottolineando così la permeabilità di un’idea che, pur mutando la forma, non può mutare il contenuto. Ma qual è quest’idea di cui parliamo tanto? Semplice. L’uomo è la specie più resistente dopo gli scarafaggi, l’amicizia virile è sacra e l’amore, assieme alla speranza, rendono le persone capaci di ricominciare una vita pur avendo perduto tutto, più e più volte. Fine.
Un’idea, forse, semplicistica (ed in tale maniera è stata esposta!), ma che proprio nella sua semplicità ha il suo punto forte: in essa vi è la capacità di imporsi ad un bacino di pubblico molto ampio e variegato, una verticalità d’utenza tale che può segnare la riuscita del film al botteghino.
Oltre ad essere un film discreto, La Contessa Bianca, è stato anche l’ultima produzione di uno dei sodalizi artistici più importanti degli ultimi 50 anni, di una coppia di personaggi forse unica al mondo: James Ivory e Ismael Merchant, quest’ultimo venuto a mancare nel maggio dell’anno passato, poco prima della conclusione della postproduzione del film. La Merchant Ivory Productions, fondata nel 1961, ha lasciato un segno importante nella storia del cinema, producendo nel corso dei suoi 44 anni di vita più di 30 film, tra i quali alcuni grandi successi di Ivory come Camera con vista (A room with a view, 1985) e Quel che resta del giorno (The remains of the day, 1993). Una storia di cinema che rappresenta anche la storia di un’amicizia tra due uomini, che hanno condiviso per quarant’anni l’amore per la cinematografia e per l’India, uno dietro la macchina da presa, l’altro alla continua ricerca di fondi per finanziare i film che produceva. Un rapporto umano ancora prima che un rapporto prettamente professionale, un qualcosa che potrebbe portarci a paragonare le esplosioni che imperversano su Shangai nel finale del film, a fuochi artificiali cinesi che lasciano abbagliati i protagonisti: estremo saluto, involontario e commovente, ad un amico e compagno di vecchia data.
(The White Countess) Regia: James Ivory; soggetto: ispirato al libro The diary of a Mad Old Man di Tanizaki Junichiro; sceneggiatura: Ishiguro Kazuo; fotografia: Christopher Doyle; montaggio: John David Allen; musica: Richard Robbins; scenografia: Andrew Sanders; costumi: John Bright; interpreti: Ralph Fiennes (Jackson), Natasha Richardson (Sofia), Vanessa Redgrave (Zia Sara), Lynn Redgrave (Olga), Madeleine Potter (Greshenka), Hiroyuki Sanada (Matsuda); produzione: Merchant Ivory Productions, Mikado Films, VIP Medienfonds 3, Shangai Film Group; distribuzione: Medusa; origine: Inghilterra; durata: 135’; web info: La Contessa Bianca.
