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La donna che canta

Pubblicato il 24 gennaio 2011 da Sofia Bonicalzi


La donna che canta

Tratto dalla pièce teatrale di Wajdi Mouawad, La donna che canta è un viaggio dolente e amaro fra la Montreal dei giorni nostri e il Medio-Oriente, un Libano sottinteso e mai nominato, teatro di guerre di religione e violenze inenarrabili.

Come spesso accade, il titolo italiano rende ben poca giustizia ad un film complesso e polifonico, costruito per percorsi che si intrecciano e si allontanano nel tempo e nello spazio, per poi incrociarsi di nuovo sui tracciati brucianti di un destino imprevedibile e segreto.

Tutto ha inizio in Canada, con l’apertura del testamento di Nawal Marwan, la silenziosa, enigmatica segretaria del notaio davanti al quale ora stanno seduti i suoi figli, gemelli sulla soglia dell’età adulta. Nawal non vuole fiori e preghiere, ma chiede di essere sepolta nuda, senza una bara e senza una lapide, almeno fino a quando i suoi figli non avessero rintracciato un padre e un fratello a cui consegnare due lettere sigillate. Lo sconcerto di Jeanne e la rabbia di Simon non potrebbero essere maggiori, mentre il loro castello di certezze (la madre ha sempre raccontato che il compagno era morto in guerra, molti anni prima, a Daresh, mentre di un terzo fratello nessuno di loro ha mai sentito parlare) comincia a vacillare, e si insinua persino il sospetto che Nawal abbia perso la ragione. Inizia così La donna che canta, del giovane cineasta canadese Denis Villeneuve (che in Polythechnique aveva raccontato del massacro compiuto in una scuola di Montreal alla fine degli anni ’80), presentato all’ultimo Festival di Venezia nelle ‘Giornate degli autori’, e ora inserito nella cinquina delle opere in lizza per l’Oscar alla migliore pellicola straniera. Il film stupisce ed emoziona, oscillando fra realismo estremo e melodramma, in un crescendo emotivo che culmina nello sguardo attonito e lacerato di Nawal, ai bordi della piscina (ma solo alla fine anche lo spettatore, ormai coinvolto e sconvolto dal susseguirsi degli eventi, potrà penetrarne il segreto).

La donna che canta offre alcuni punti di connessione con un altro film proiettato a Venezia, Miral, di Julian Schnabel, con cui condivide l’ambientazione, la tensione continua fra piccola e grande storia, la scansione in episodi giustapposti e il ruolo insostituibile delle figure femminili nell’orientare il corso degli eventi.

Al di là della logica narrativa, che frantuma la linearità del racconto in diversi quadri narrativi (per cui ogni sinossi non può che far torto ad un intreccio che si sviluppa per scarti e sovrapposizioni continue, frustrando di continuo il potente desiderio di verità dei protagonisti), Incendies è tuttavia, molto più di Miral, in cui si sente spesso la mancanza di un perno strutturale forte, un’opera tesa e compatta nel mettere in scena i percorsi esistenziali di due donne, madre e figlia, l’una in corsa verso un impossibile futuro e l’altra impegnata a scavare nei sentieri della memoria altrui, alla scoperta di un passato con troppi buchi e troppi silenzi.

Superata la comprensibile perplessità iniziale, Jeanne sente il bisogno di ricominciare dal principio, e così abbandona il suo nuovo mondo per interrogare volti e luoghi, in quel Medio Oriente insanguinato dalle faide, dove Nawal era nata e cresciuta prima di trasferirsi in Canada. Armata unicamente di una vecchia fotografia della madre da ragazza, Jeanne intraprenderà un doloroso percorso di redenzione del rimosso, alla ricerca di una verità che appare di volta in volta più inaccessibile e perduta nelle lontananza. Al racconto dell’odissea di Jeanne il film alterna quello dell’esistenza di Nawal, nata da una famiglia cattolica in un piccolo villaggio libanese alla fine degli anni ’40, poi studentessa e attivista politica, infine paria costretta ad abbandonare il proprio paese senza alcuna speranza di fare ritorno.

Lo stile asciutto ed incisivo, privo di accenti retorici e di lirismi si rivela indispensabile per superare l’impasse suscitato dal finale ad effetto, in cui il film sfiora pericolosamente la china del melodramma, ma ritrova una certa compostezza grazie alla secchezza e al pudore di inquadrature che non prestano il fianco a facili patetismi.

Se, come Jeanne scoprirà a proprie spese, la vita ha poco in comune con un’equazione matematica, e somiglia più ad un puzzle difficile da ricomporre, in cui i tasselli paiono fino all’ultimo non poter collimare, l’incredibile scoperta irrompe all’improvviso, portando finalmente, con tutto il suo fragore, la quiete e il silenzio.

E, se ogni promessa sarà mantenuta, anche Nawal, il cui nome, ossessivamente ripetuto dalla rigorosa, ordinata Jeanne, riecheggia per tutto il film, potrà forse trovare la sua pace.


CAST & CREDITS

(Incendies); Regia: Denis Villeneuve; sceneggiatura: Wajdi Mouawad, Valérie Beaugrand-Champagne; fotografia: André Turpin; montaggio: Monique Dartonne; musica: Grégoire Hetzel; interpreti: Lubna Azabal (Nawal Marwan), Mélissa Desormaux-Poulin (Jeanne Marwan), Maxim Gaudette (Simon Marwan), Remy Girard (Jean Lebel), Abdelghafour Elaaziz (Abou Tarek), Allen Altman (Maddad), Mohamed Majd (Chamseddine), Beya Belal (Mayka); produzione: micro_scope; distribuzione: Lucky Red; origine: Canada 2010; durata: 130’.


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