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La Foresta Dei Pugnali Volanti

Pubblicato il 18 gennaio 2005 da Fabrizio Croce


La Foresta Dei Pugnali Volanti

Quando un cineasta sceglie di cimentarsi con un genere cinematografico che possiede dei codici narrativi ed estetici profondamente segnati, è facile che perda i propri tratti distintivi, la propria visione personale in funzione di un immaginario già riconosciuto e assimilato. Eppure Zhang Yimou sia con Hero che, ancor più, con La foresta dei pugnali volanti, è riuscito ad iniettare inquietudini e suggestioni spazio-temporali del suo sguardo paziente e caparbio nel rutilante, magniloquente e sinuoso universo del wuxia. E proprio questo suo ultimo lavoro, forse perché frutto di maggiore sicurezza nei confronti del genere, permette a Zhang di mettere in gioco con più rilievo tutte le magnifiche ossessioni del suo cinema: l’esplosione graduale e innarestabile di emozioni estreme, il riconoscimento dei soprusi e delle iniquità di una società classista come quella cinese dell’859 d.c., la condizione femminile come simbolo di purezza e resistenza contra la violenza e la corruzione maschile, l’attenzione al paesaggio come verità naturale in un mondo di illusioni culturali. E la semplicità. Perché il film, ridotto all’osso, è la cronaca del progressivo innamoramento tra Mei, ballerina non vedente che nasconde di essere la figlia del defunto capo della “Casa dei pugnali volanti”, e Jin, capitano della contea di Feng Tian che, tramite Mei, vuole arrivare a scovare il nuovo capo della setta anarchica e clandestina che si batte conto le ingiutizie dell’Impero. La magistrale mdp di Zhang ha la capacità di portare tutto il mistero e la complessità dell’intreccio ai minimi termini dei volti dei due protagonisti, Zhang Ziyi -traghettata ingenua e acerba da La strada verso casa al furore e alla sensualità di questa Mei, e Kaneshiro Takeshi, volto “contaminato” (meta taiwanese, metà giapponese) del cinema di Hong Kong. Il volto, il corpo, l’azione fisica non finalizzata all’espressione fine a se stessa - il ballo, il combattimento, il rapporto sessuale tra Jin e Mei - ma al tentativo di relazionarsi all’altro da noi diventano, come sempre in Zhang, gli unici strumenti, sotteranei e quasi nascosti al di là della loro plateale visibilità, per eludere le trappole della mente. L’ambiguità, l’altra faccia della semplicità, è del resto superbamente realizzata nel rendere cieca Mei e nel farle conoscere l’uomo di cui si innamorerà, Jin, sotto le mentite spoglie di Vento, un misterioso guerriero. Sotto questa doppia mancanza - l’impossibilità di Mei a vedere Jin, che a sua volta non può rivelare la sua identità - Zhang costruisce il nutrirsi del sentimento tra i due, temporalmente (tre giorni) e spazialmente (la foresta) definito. E il momento in cui fanno l’amore sotto le stelle rimane di impagabile e intensa verità, un gesto irrazionale e autentico che travolge le incantevoli e geometriche costruzioni aeree dei combattimenti. Come se Zhang fosse rimasto lì, tra le tinte e i tessuti di una tintoria in fiamme nella Cina degli anni Venti.

[Gennaio 2005]

(Shin Mian Mai Fu) Regia: Zhang Yimou; Sceneggiatura: Li Feng, Zhang Yimou, Wang Bin; Fotografia: Zhao Xiaoding; Interpreti: KaneshiroTakeshi, Zhang Ziyi, Andy Lau, Song Dandan; Produzione: Bill Kong, Zhang Yimou; Origine: Cina 2004; Durata: 119’

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