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La grande bellezza sul tetto del mondo: da Douglas Mortimer a Jep Gambardella

Pubblicato il 3 marzo 2014 da Giammario Di Risio


La grande bellezza sul tetto del mondo: da Douglas Mortimer a Jep Gambardella

Quella appena trascorsa è stata una notte carica di emozioni e orgoglio per tutti quelli che hanno a cuore il cinema italiano e non solo: dopo 15 anni dall’ultimo trionfo agli Oscar, l’Italia torna protagonista con La Grande bellezza di Paolo Sorrentino, che si aggiudica il premio come miglior film straniero.

In un momento molto particolare per il nostro paese, in cui i sentimenti predominanti nel tessuto sociale sono caratterizzati da distacco e rassegnazione, ecco che, dall’altra parte del mondo, la strada del nostro cinema ritrova, grazie al regista napoletano, il Tempio pronto a riconoscergli quel dinamismo creativo tipico della cultura italiana. Lo spettacolo di Jep Gambardella, con il suo incedere aristocratico e con la sua sofferta implosione all’interno di un mondo da tempo in sbriciolamento totale, ha conquistato gli americani e si prende sulle spalle una lieta, attesa, necessaria responsabilità: rimettere il nostro cinema, la nostra cultura al centro del dibattito internazionale.

Paolo Sorrentino è nato nel 1970, nel mezzo di una stagione di conflitti, sviluppatisi per circa un trentennio, che investono tutti gli strati della società italiana e che, per molti studiosi, non hanno uguale riscontro, per durata e intensità, negli altri grandi paesi occidentali. Quel periodo, governato dai simboli del partito e della famiglia, in cui bisognava tramutare in agire politico le nevrosi di una società in rapido cambiamento, ha portato la nostra cultura a essere protagonista nel mondo intero. Per restare alle due principali arti di cui si nutre il genio di Sorrentino, la letteratura e il cinema, in quegli anni figure come Umberto Eco e Sergio Leone riescono a esportare la nostra cultura traducendo in arte gli enormi, sofferti conflitti caratterizzanti la vita quotidiana di ciascun italiano. Figure come il colonnello Douglas Mortimer o Guglielmo da Baskerville creano, con le loro caratteristiche e la loro mission, un vocabolario simbolico che riuscirà a condizionare l’immaginario mondiale.

Oggi le cose sono cambiate, il nostro cinema non può più permettersi, al momento, di invadere le sale cinematografiche italiane anche perché, come ha giustamente sottolineato lo stesso Sorrentino a margine della premiazione, molti cinema chiudono e le nostre espressioni culturali sono continuamente minacciate dalla stessa nostra classe politica restando in balìa di un mercato internazionale che ci vede non più protagonisti, viceversa spettatori marginali. Non stiamo parlando esclusivamente di cinema, ma di tutto un movimento culturale che sembra aver preso inesorabilmente una linea calante e le ultime notizie che giungono da Ercolano e Pompei, con altri tesori architettonici che si sbriciolano come i sentimenti aridi degli animi che circondano Jep Gambardella, risulterebbero l’ennesima conferma di quanto detto.

La grande bellezza tuttavia, con il riconoscimento più importante che si può dare a un film, ha la possibilità di rimettere la palla al centro, innervando tutto un movimento e donando un sentimento di coraggio a tutta la nostra società. La base resta anche in questo caso il conflitto, e qui emergono i ringraziamenti dello stesso regista napoletano durante la premiazione. Da un lato abbiamo il ringraziamento alla famiglia, vista come contenitore protettivo e detonatore di coraggio che, come elemento simbolico, ha perso molta potenza nel nostro quotidiano precipitando in una frammentarietà pericolosa, come gli stacchi e la musica cardiaca, quanto raccolta in alcuni passaggi, della prima, spettacolare sequenza del film. Dall’altro lato abbiamo Martin Scorsese, il regista che più di tutti ha rappresentato personaggi autodistruttivi, capaci di creare significazione mediante il conflitto interiore da riversare all’esterno, di fatto ciò che avviene a Jep Gambardella mentre si muove, con la sua maschera e i suoi sentimenti, in una Roma papalina sontuosa, silenziosa e in perenne contrasto con il caos schizzato delle feste mondane. Il regista ci parla di sacro e profano, di un dualismo che potrebbe tranquillamente contemplare il tema della presenza e dell’assenza o della carne e dello spirito, ed ecco che arriva il ringraziamento a Diego Armando Maradona, forse la metafora umana che meglio filtra i conflitti sorrentiniani. Un uomo capace di entrare, con la magia del proprio talento, nell’Olimpo dei grandi della storia, donando sublime estasi a milioni di persone/spettatori, salvo poi conoscere, a più riprese, le catacombe dell’animo umano, fino ad arrivare a volte al totale disfacimento del corpo, che diventa termometro per valutare solitudine e infelicità di un’intera vita. Quel corpo che diventa icona e simbolo di un continuo rovesciamento esistenziale, sentimento quest’ultimo che aggredisce senza preavviso anche il protagonista de La grande bellezza. Il sollievo potrebbe arrivare dagli amori adolescenziali, da quei flashback poetici che puntellano ciclicamente il film, puntando allo stomaco, e che si collegano al ringraziamento al nostro Federico Fellini, il regista italiano più amato dagli americani il cui genio, purtroppo, sembrerebbe essere stato coperto dal silenzio della nostra intellighenzia, troppo spesso condizionata da logiche superficiali, di bassa lega. E qui potrebbe riaffiorare il tema delle tante, troppe critiche subite dal film di Sorrentino in questi mesi di programmazione, che forse certificano la nostra attuale incapacità a godere di un’arte lontana, fortunatamente, dal carrozzone televisionario che ha formato, violentato il gusto medio di noi italiani condizionando, dittatorialmente, anche il nostro cinema.

Questa vittoria è un assist, come ha sottolineato giustamente Carlo Verdone, lo scrittore in crisi esistenziale amico di Jep nel film, per tutto il nostro movimento culturale ma, soprattutto, per la nostra falcidiata politica che ora ha un nuovo dux, anch’egli nato negli anni Settanta. Speriamo che con questa grande vittoria si possa affrontare un nuovo percorso che, nel caso dovesse palesarsi, avrà enormi tensioni al suo interno, com’è nella migliore tradizione italiana, aprendo tuttavia a una stagione culturale più alta, che non ha bisogno di vergognarsi, del suo presente, guardando indietro al suo glorioso passato.

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