La Mala Educaciòn - Un noir a colori (acidi)

"Il film non è una commedia, anche se non manca l’umorismo, né un musical per bambini, nonostante vi siano bambini che cantano. È un film noir, o perlomeno così a me piace considerarlo."
Pedro Almodóvar
Considerato dal punto di vista estetico, La mala educación tutto si può considerare tranne un noir in senso classico: il chiaroscuro esasperato che costituisce lo stilema visivo per eccellenza del genere è pressoché assente e il colore nero ricorre soltanto nelle macchie scure delle tonache dei preti del collegio, ma queste si limitano a punteggiare (episodicamente) un film decisamente colorato, seppure nelle tinte acide e un po’ vintage della nostalgia per la movida anni Ottanta.
Ciò che invece consegna al film alla più pura tradizione di genere, risiede essenzialmente nella sceneggiatura, nella sua costruzione stratificata e complessa che tocca allo spettatore dipanare nel suo susseguirsi di indizi e colpi di scena. Il noir di per sé ha una struttura estremamente intricata (pare che lo stesso Chandler, autore de Il grande sonno, non avesse ben chiaro chi fosse l’assassino dell’autista della famiglia Sherwood all’inizio del film) ma Almodóvar ne amplifica la complessità scegliendo di mostrare direttamente con lunghissimi flash back ciò che di norma viene solo raccontato dai personaggi, confondendo un po’ troppo i piani narrativi.
Non è un caso che si sia citato Chandler, perché Almodóvar, cancellando decenni di evoluzione del genere che hanno visto il revisionismo anni Settanta e i pastiches anni Ottanta, si rifà al noir più classico, quello americano della metà del secolo scorso, eliminando la componente ironica e dissacrante introdotta dai fratelli Coen e da Tarantino negli anni Novanta. Ne La mala educación, infatti, gli sprazzi (pochi) di humour e grottesco appaiono più componenti dell’almodrama “classico”, più per épater les burgeois (la rapina degli oggetti da messa con Paca/Javier Cámara che esclama “che divini!”). Non si ride, quindi, della morte, come ci si era abituati, in maniera liberatoria, a cavallo del nuovo millennio: nel noir classico la morte resta morte, e il dolore, dolore.
Al centro della vicenda, come sempre, c’è lei: la dark lady. “Nel noir le donne sono al centro dell’intrigo” osserva Anne Kaplan in Women and film noir “definite per la loro sessualità, che è presentata come desiderabile ma pericolosa per l’uomo, hanno la funzione di ostacolare la ricerca maschile”. Trattandosi di Almodóvar, non poteva non trasformarsi più che altro in un enfant terribile, ma La fiamma del peccato non è del tutto spenta: il misterioso Angel (l’“angelo del male” di Querelle?) appare dietro le veneziane di un ufficio che potrebbe essere quello di Marlowe o di Sam Spade per portare il caos, l’amore e il dolore nella vita di un uomo solitario che si ritrova ad indagare nel suo passato. Appartiene alla categoria delle mogli apparentemente affettuose e che in realtà covano omicidi come la platinata Barbara Stanwick, con cui condivide, nelle vesti del travestito Zahara, l’antinaturalismo di un eterno femminino che esiste solo nello sguardo maschile.
La femme fatale più istituzionale, solitaria, sfruttatrice, sbandata e quindi più meritevole di pena (dal Grande sonno al Grande caldo di Lang), è diventata invece un transessuale, Ignacio.
“È come se tutti i film parlassero di noi” dice Berenguer uscendo dal cinema dove si è rifugiato con Juan per sfuggire ad un temporale e alla decisione di commettere un omicidio. Le locandine ci informano che hanno visto L’angelo del male di Renoir e Teresa Raquin di Carné: come nella sala degli specchi de La signora di Shanghai, continua inarrestabile la moltiplicazione (deformata) delle immagini di morte.
[ottobre 2004]
