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LA MOSTRA VESTE NERO

Pubblicato il 6 settembre 2006 da Alessia Spagnoli


LA MOSTRA VESTE NERO

Parafrasando il titolo di uno dei film più chiacchierati e attesi alla Mostra del cinema di Venezia, (Devil Wears Prada), intendiamo qui porre l’accento su quanto questa sessantatreesima edizione verrà ricordata come una delle più cupe da molti anni a questa parte (la rassegna è stata generata, non a caso, sotto il segno del noir: dal bel film d’apertura di De Palma, passando attraverso l’omaggio al Preminger dimenticato di Bunny Lake is missing).
La lunga ombra della morte getta una luce sinistra e avvolge in un’unica spira mortifera e “malata” (ben tre le pellicole che contengono al loro interno personaggi colpiti da cancro al cervello: Aranofsky, Darroussin, Tavarelli) i film presenti nelle diverse sezioni, consegnando una riflessione assai articolata sui tempi oscuri che il New Global World sta attraversando. Non a caso le commedie si contano, come non mai, sulla punta delle dita: le poche presenti, sono comunque nerissime e contemplano andirivieni attorno al capezzale di qualcuno (il delizioso, acutissimo Resnais), prendono le mosse da funerali (la “commedia luttuosa” dell’austriaca Barbara Albert, col suo gruppo di amiche reduci dalle esequie del loro amante eppur smaniose di divertimento, tutte vestite di nero), oppure si chiudono con esecuzioni capitali, come il troppo simile a Capote, Infamous (sceneggiature identiche).
Perfino dagli Usa, il paese che tradizionalmente frequenta il genere più di ogni altro, ci giungono invece opere di più profonda portata e risonanza storica, come il fluviale documentario su Katrina a firma Spike Lee e la fedele ricostruzione di Stone sull’attacco al World Trade Centre (sul valore assoluto del lavoro sulla presa diretta ci pare ben più carico di significato il lavoro di Lee, se si ricorda anche il capolavoro La 25a Ora, il “vero film” sull’11 settembre americano), ma anche l’assai complessa e stratificata opera lisergica di Aranofsky, che tanti e tanto ha diviso, sull’utopistico tentativo di trascendere “gli argini” della Morte (anche se non si potrà negare, da un fronte come dall’altro, il suo indubbio impatto emotivo o il suo abbagliante splendore formale).
Fra gli altri fili rossi che emergono in maniera più nitida e compatta quest’anno alla Mostra - e in maniera strettamente connessa a quanto appena detto - un altro dei nodi principali pare riguardare l’impossibilità da parte dell’uomo ad imporre alcun controllo o la sua volontà sugli eventi. Siano questi ultimi di portata sconvolgente (devastazioni naturali, attacchi terroristici su vasta scala) o conservino una dimensione più intima e privata (le paure del borghese comune di nuovo nel lucido Resnais, ma la stessa valenza può essere estesa, senza alcuna forzatura, alle simbologie dell’uomo-clown-robot e le donne-bambole di Satoshi Kon).
Come rappresentarsi altrimenti l’apparire, qui e là, di tanti ritratti di potenti della terra inadeguati: è Tony Blair, a ben guardare, il vero sconfitto del film sulla regina di Frears, è lui ad uscire malconcio dall’istantanea del Paese scattata dal cineasta inglese (e in lizza per qualche premio). George W. Bush, poi, ormai non stupisce più nessuno con la sua inettitudine al potere, rimediando l’ennesima figuraccia in When the Leeves broke.
Non stupisce allora che ci si rivolga indietro al passato, come nell’interessante “work in progress” Bobby di Emilio Estevez, in cui - attenzione - si porta sugli scudi non un Presidente sul cui operato si possa tracciare un bilancio, un omaggio, ma su un leader che non è mai stato, come Robert Kennedy. Si devono aprire, per forza a questo punto, scenari alternativi. Non si offrono speranze, quaggiù, in quest’abisso. Questo sembra dire, con voce più alta, la Mostra in corso. E allora, magari, si dovrà meditare più approfonditamente e riapprezzare un’opera come The Fountain, con il suo immaginario altro, unitamente alla chiarezza della visione profetica del suo autore.


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