La musica nel cuore - August Rush

Separato alla nascita dai suoi genitori, Evan Taylor abbandona l’orfanotrofio nel quale aveva vissuto fino ad undici anni, per mettersi alla loro ricerca. Ad aiutarlo un innato talento musicale, chiaramente eredito, che lo farà diventare il più giovane compositore ad aver mai scritto un conceto per la Juillard.
Film sul potere incantatorio e universale della musica, August Rush è, prima di tutto, la magnificazione del sincrono e dell’acusma secondo l’accezione che dà dei termini Chion nel suo ormai leggendario saggio L’audivision au cinema.
Fin dalla primissima inquadratura del film (per inciso una delle più felici: vi vediamo Evan dirigere una sorta di concerto per spighe di grano e vento) l’acusma si configura come vera e propria voce della Natura e del Mondo. Esso è onnipresente, come un palpito la cui esistenza sfugge alle nostre orecchie abituate al frastuono apparentemente impoetico delle città. È espressione di una sorta di respiro divino che ci unisce gli uni agli altri e ci mette in contatto con le forze occulte e misteriose dello spirito del Mondo. Percepire questo acusma straordinario, essere perennemente consapevoli della sua presenza, oltre a renderci panteisticamente consci dell’esistenza di qualcosa di divino che non può non sfuggire alla nostra comprensione, ci rende anche capaci di “inter essere” con il mondo che ci circonda (e del resto Evan continua a ripetere di riuscire a sentire la musica dei genitori anche se tutti intorno a lui continuano a ripetergli che sono morti).
La voce dell’universo è Musica, quindi. Una musica ora sommessa, ora più forte, ora legata al fascino arcano di una Natura incontaminata e bella, ora intrisa di “rumori” facenti parti del mondo tecnologico (il vento tra i fili della corrente elettrica, il ritmo meccanico del movimento di un treno o il lavoro incessante di un martello pneumatico che buca l’asfalto), ma perenne, incessante, inarrestabile.
Un dialogo, quello di cui stiamo parlando, che il Mondo intrattiene con se stesso, che non può cessare mai e che ci immerge in una “durata” che è per sua natura intensamente musicale.
Le distinzioni classiche degli elementi sonori che compongono l’universo filmico di qualsiasi opera cinematografica perdono un poco il loro senso all’interno dell’organizzazione sonora di August Rush. In primo luogo perché cessano di esistere, perlomeno nei momenti più ispirati della pellicola, i suoni disarticolati e i rumori così come siamo abituati a percepirli. Ogni suono, infatti, fosse anche il più “brutto” come lo strombazzare di un clacson nel traffico cittadino, è non solo voce di una cosa, ma parte costituente e non accessoria dell’immensa, inascoltata voce dell’Universo. Di più: ogni singola voce, in quanto parte integrante dell’immenso edificio polifonico che è la Natura (alla Baudelaire, ma anche alla Mahler) è, ipso facto, Musica. In questo modo Rumore, Voce e Musica (la triade sonora classica di ogni film) diventano categorie sonore culturalmente inscindibili e tutto il mondo di August Rush parla e canta al tempo stesso.
Se la voce della Natura è assoluta, di questa assolutezza a noi, che siamo solo piccoli campioni di minima umanità, è dato sempre di percepire solo una piccola parte. Ci è dato di intuire il tutto, giammai di abbracciarlo. Non possiamo, infatti, ascoltare ogni cosa nello stesso momento, la nostra "particolarità" ci obbliga, in ogni momento della nostra vita, ad operare una scelta che è, al tempo stesso, del cuore e della mente.
Nel momento in cui decidiamo a quale suono dedicare la nostra attenzione, di fatto, scomponiamo quel vasto contrappunto che è l’insieme della Voce della Natura e lo ricomponiamo a nostra immagine, lo riforgiamo secondo i nostri bisogni. Diventiamo, insomma, i compositori della nostra propria musica. O, se vogliamo guardare la cosa secondo una metafora più strettamente cinematografica, diventiamo i montatori della nostra stessa esistenza. Perché il montaggio è fondato sulla scelta di una specifica inquadratura al posto di un’altra (se vogliamo: la melodia delle immagini) e del suo tempo di persistenza sullo schermo (il ritmo della pellicola). Il suono si adegua a questa logica. Comporre una musica e montare un film sono, da questo punto di vista, operazioni analoghe perché presuppongono un’organizzazione del mondo secondo regole del tutto nuove. Poiché il film entra direttamente nell’interiorità del suo personaggio, il montaggio della pellicola si adegua, per forza di cose alla musica tutta interiore dello stesso. Il sincrono audio visivo è, quindi, il perfetto punto di incontro tra il narrato (la musica di Evan, il suo modo di vedere il mondo) e il narratore.
August/Evan, infatti, è un personaggio che ascolta la voce della Natura (di fatto afferma a più riprese di seguirla), ma nel far questo opera una scelta precisa e riorganizza incessantemente quella parte del tutto che gli è dato percepire con la maestria di un novello Mozart. Anche se nel film abbiamo spesso l’impressione che sia lui a governare il mondo attraverso la sua musica (il suo concerto è l’occasione dell’incontro tra i genitori che non si vedono da anni e fin dall’inizio il personaggio assume le fattezze di un vero e proprio direttore d’orchestra) in realtà egli si limita ad assecondare il flusso della Natura e la Voce del Mondo. Egli non costruisce niente che non esista già, ma si limita a trovare un disegno nell’esistente, cerca di dare un senso esperibile a ciò che è solo gratuito omaggio del Mondo a se stesso.
I sincroni audiovisivi di cui il film è disseminato sono appunto espressione del suo punto di vista sul mondo. Ma il mistero insondabile dell’Arte è che se è innegabile che essa sia niente più che espressione di un nostro punto di vista sul Mondo, non di meno essa, spesso, sembra capace di motivare, di guidare quello stesso mondo da cui deriva (nata dal desiderio di una riunione familiare, la musica del concerto poi guida ogni fase di quella stessa riunione).
Su questo paradosso insanabile riposa tutta la poesia di August Rush: un film delicato, non del tutto consapevole dell’abissalità dei temi che mette in campo e minato, al fondo, da una classica retorica buonista che ogni tanto appare un po’ posticcia. Ad un certo punto (quando entra in scena The wizard: un Robin Williams una volta tanto non del tutto sprecato) non nasconde una sua derivazione da Oliver Twist. Ottimamente interpretato è un film che può piacere a grandi e piccini. Bello, ma non troppo.
(August Rush); Regia: Kirsten Sheridan; sceneggiatura: Nick Castle, James V. Hart; fotografia: John Mathieson; montaggio: William Steinkamp; musica: Mark Mancina; interpreti: Freddie Highmore (August Rush), Keri Russell (Lyla Novacek), Jonathan Rhys Meyers (Louis Rush), Robin Williams (Wizard), Terrence Howard (Richard Jeffries), William Sadler (Thomas), Alex O’Loughlin (Marshall) Aaron Staton (Nick), Jamie O’Keefe (Steve); produzione: Southpaw Entertainment; distribuzione:Medusa; origine: USA, 2007; durata: 100’
