LA PORTE DU SOLEIL
1961, in 212 minuti Otto Preminger narrava col suo cartesiano cinemascope il contro-esodo degli ebrei che andavano a ricrearsi uno stato dopo la millenaria diaspora. Gli arabi non avevano diritto di parola, troppo recente il ricordo della Shoah per gettare un’ombra di dubbio sulla luminosità del sogno sionista. 2003, in 278 minuti Yousry Nasrallah narra col suo cinemascope inesauribilmente mutevole il controcampo della guerra del 1947, quando la terra sacra e disgraziata di Palestina non fu più, da un giorno all’altro, degli arabi, cui sarebbero stati riservati i ghetti dei campi profughi libanesi e una guerra senza fine. Naturalmente, anche qui il punto di vista, per quanto polimorfico, non arriva a scavalcare il campo e a dare le ragioni del nemico. Per questo ci vorrà forse qualche sguardo esterno e intimamente dialettico. La porte du soleil offre altro. La terra che si fa frutto da mangiare, come le arance succose del prologo, il miraggio di una patria che trova il suo dolcissimo surrogato in una grotta dedicata all’amore, e la Storia che traccia il suo percorso non lineare nella carne degli uomini, ferisce a morte la loro memoria, giunge a farsi forma cinematografica. Racconto, intanto: la storia di un popolo e dei suoi figli, declamata intorno a un letto d’ospedale per tenere legato alla vita chi a quel popolo la vita ha dedicato. Una Storia che si stratifica in storie incapsulate l’una nell’altra, con somma libertà. Una storia di politica e d’amore, ché l’una non può andare senza l’altro, ed entrambi si forgiano nel fuoco dell’assenza. L’amore è una terra perduta, sempre e comunque. E poi dialettica. Delle due lunghe parti di questo epos dinamico e multiforme, la prima è la sorgente mitica, il racconto dei padri e del peccato originale, ed è un melodramma sgargiante e condotto a ritmo scatenato, come Chahine insegna, avvolgente e odoroso d’olive. La seconda è i mille rivoli di quella deflagrazione, il racconto dei figli, della possibilità di un ritorno, ed è un caotico clash di linguaggi che comprende il video, i filmati di repertorio, i salti di tono e di tempo, fino alla riflessione metanarrativa dell’episodio con Béatrice Dalle. La trappola senza uscita in cui la questione israelo-palestinese si è impantanata per decenni, trova un suo doppio plausibile in questa agglutinata complessità. Quello che intimamente lega le due ante è una struttura circolare modellata sui movimenti dell’anima, e l’esatta percezione che il cinema sia come la porta del sole, una patria traslata, che per la Palestina può incarnarsi pervasivamente negli attoniti diari di Suleiman o nel tratto furente di Nasrallah.
[aprile 2005]
(Bab El Chams)
Cast & credits:
Regia: Yousry Nasrallah; sceneggiatura: Elias Khoury, Mohamed Soueid dal romanzo di Elias Khoury; interpreti: Rim Turki, Orwa Nyrabeya, Hiam Abbas, Bassel Khayyat, Nadira Omran, Hala Omran, Mohtasseb Aref, Béatrice Dalle; origine: Francia, Egitto, Marocco 2003; durata: 278’.