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LA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA

Pubblicato il 20 febbraio 2004 da Alessandro Borri


LA RAGAZZA CON L'ORECCHINO DI PERLA

Wenders disse una volta che Jan Vermeer da Delft al cinema sarebbe stato il supremo operatore, l’uomo dall’inquadratura perfetta e immodificabile. Il fascino del pittore olandese del resto (a parte le lusinghe di una produzione esigua che fa di ogni suo quadro un unicum stimolante occhi e desiderio) risiede proprio nella incorruttibile icasticità delle sue messe in quadro, che coprono tutta la scala dei campi e dei piani: campo lungo (Veduta di Delft), medio (Il vicolo), totale (le tante stanze congelate in musiche mute, conversazioni silenti, letture sospese e presaghe - ingannevole è la pace in questi interni più di ogni cosa), piani ravvicinati, fino al primo piano dell’eponima ragazza con l’orecchino. Nel trasporre l’abile romanzo di Tracy Chevalier - il cui principale interesse stava nella restituzione del mondo interiore di Griet, sapientemente proiettato sullo sfondo dell’epoca, della mentalità gretta che la circonda, del mistero della pittura che va a incontrare - dal mondo del pensiero a quello dello sguardo (l’epopea dello sguardo innocente della piccola cameriera, del suo guardare e del suo farsi guardare) è inevitabile affidarsi al trionfo della natura morta, allo sfoggio della buona documentazione iconografica e della giusta imitazione compositiva, alla precettistica del “come lo avrebbe fatto lui”. Il problema in questi casi è che non si può replicare l’estasi a ogni stacco (a meno di non chiamarti Mizoguchi), e che la rivelazione è questione di intuito e di presa a tradimento dei sensi, non di studiata, imbrigliante consapevolezza, che sa di museo e frusciare di edizioni di lusso. Certo Eduardo Serra colma da par suo (seguendo il percorso di Griet) la forbice tra la cucina stipata di carni, vanitas e odori, e la stanza della pittura, depurata e sacrale, con tale splendore anzi che le riproduzioni vermeeriane sembrano quasi sbiadire al confronto del set. Ma visto che solo il cinema può far vedere le nuvole, l’acqua dei canali, la consistenza delle stoffe, quando si ha a che fare con una storia di luce meriteremmo la folgorazione dell’attimo, non la peregrinazione di corpi cui quel che resta da fare è trovare il proprio posto nel frame e mantenerlo, come insegna Greenaway. Per il resto Webber accosta scena a scena senza sublimare, lavora sul non detto ma gli manca la finezza per colmare gli interstizi, telefona tutti gli approcci ansioso di arrivare alle scene madri. Solo in extremis, con la bella reticenza finale, coglie uno spicchio di poesia. Troppo tardi.

[febbraio 2004]

Cast & credits:

Regia: Peter Webber; sceneggiatura: Olivia Hetreed dal romanzo di Tracy Chevalier; fotografia: Eduardo Serra; montaggio: Kate Evans; musica: Alexandre Desplat; scenografia: Ben van Os; costumi: Dien van Straalen; interpreti: Colin Firth, Scarlet Johansson, Tom Wilkinson, Judy Parfitt, Cillian Murphy, Essie Davis; produzione: Andy Paterson, Arnand Tucker per Archer Street; origine: Gran Bretagna, Lussemburgo 2003; distribuzione: Mikado. durata: 99’

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