La ricerca della felicità
Un viaggio. La ricerca della felicità di Gabriele Muccino, prima ancora di essere un’ennesima magnificazione del Sogno americano, è essenzialmente questo: la storia di un "movimento", la cronaca di un inesausto, inesauribile "tendere a" che non ammette alcuna forma di approdo stabile e duraturo.
Il titolo italiano che già perde, nella traduzione, il gioco allusivo della sgrammaticatura sulla parola happyness (l’ortografia corretta sarebbe, in effetti, happiness) sacrifica all’altare della sintesi (elemento necessario a vendere un film sin dalle locandine) anche la gamma complessa di significati che si stratificano intorno alla parola "pursuit" che rimanda sia alla dimensione puramente sociale dell’ottinimento di un posto di lavoro, sia, in maniera ancor più pregnante, a quella quasi metafisica dell’inseguimento, della pura e semplice caccia.
Non è una ricerca in senso tradizionale, quella messa in scena nella pellicola, ma un vero e proprio inseguimento, ora piano, ora convulso, di un qualcosa che non è possibile raggiungere. Perché la felicità, e lo sappiamo bene noi europei cresciuti all’ombra della grande Filosofia, è solo un momento, un attimo brevissimo che brucia e illumina e che fugge poi via come un miraggio ad indicarci una nuova strada.
Muccino riprende, nel suo film americano, un tema ricorrente in tutte le sue pellicole: la storia di una perdita e di una presa di responsabilità. Tutte le storie mucciniane muovono, infatti, dallo sgretolamento dell’organismo familiare, dalla perdita di ogni possibile certezza e di ogni punto di riferimento sia a livello morale (con l’affiorare di tutte le ipocrisie sulle quali si fonda, nella moderna società, il vivere civile) che, più semplicemente, a livello affettivo. Di fronte all’horror vacui di un mondo sempre più freddo e cinico, l’eroe mucciniano si trova, quindi sempre di fronte ad un bivio, ad una scelta dalla quale può dipendere non solo il suo futuro, ma anche quello delle persone che gli sono intorno.
Questa volta, però, col cambiare della realtà sociale messa in campo (e non parliamo qui solo del passaggio dall’Italia all’America, ma anche, più significativamente dello spostamento di campo dalla classe borghese a quella sottoproletaria) cambiano anche gli equilibri tra i vari valori messi in campo. In questo caso, infatti, la crisi affettiva che mina dall’interno il microcosmo familiare (qui esplosiva solo tra marito e moglie in quella che resta la parte più mucciniana e, paradossalmente, più debole di tutta la pellicola) diventa secondaria e, anzi, è direttamente motivata, da problemi concreti come la perdita del lavoro, la mancanza di soldi, gli arretrati dell’affitto e via elencando. Ne consegue un non secondario mutamento di prospettiva che fa pensare ad una sorta di "nuova fase" all’interno dell’evoluzione del pensiero dell’autore.
Alcuni elementi di questa evoluzione, in effetti, potrebbero essere amputabili direttamente al mutare delle contingenze produttive. Di fronte alle richieste di una star esigente come Will Smith e a quelle non meno invadenti della Columbia, Muccino, che pure dichiara di avere avuto ampia libertà di manovra, si è, comunque, trovato nel bisogno di dover mediare tra le ragioni di uno spettacolo assolutamente americano e quelle della sua sensibilità di regista spiccatamente europea.
La ricerca della felicità è, quindi, fin dall’inizio un film dalla doppia anima: da una parte resistono le lusinghe del classico spettacolo per famiglie americano con l’esibizione di una retorica al fondo buonista, dall’altra permane il bisogno di ancorare la visione alle regole e le norme di un realismo forte.
Non sempre questi due poli della rappresentazione riescono a fondersi nel migliore dei modi e in alcuni momenti la macchina da presa sembra perdere il controllo e tende ad assumere, nei confronti della realtà americana, uno sguardo venato da un cinismo critico un po’ deteriore e del tutto fuori tono col resto della pellicola. E’ il caso, ad esempio, della breve scena in cui l’autore, momentaneamente disinteressato dalla storia dei suoi personaggi concentra la sua attenzione su un quartetto di ricchi viziati in corsa sulla loro lussuosa automobile del tutto indifferenti al lento dipanarsi, alle loro spalle, di una fila di senza tetto in cerca di un ricovero per la notte. La macchina da presa, che solleva in questa inquadratura lo stesso gesto polemico con cui, proprio all’inizio del film, aveva sorpreso l’indifferenza della folla nei confronti di una persona riversa al suolo, assume, nei confronti della realtà messa in quadro, i toni di una violenza quasi espressionista. Il giudizio morale dello sguardo fa, di quel quartetto di ragazzi, solo un gruppo di bocche sguaiate e di capelli al vento: rappresentazione per eccesso di un sogno americano che vive nella voluta ignoranza del suo lato oscuro.
Il riferimento più ovvio, per rendere conto di questo tentativo di fusione tra le logiche del racconto alla Frank Capra con i toni del miglior neorealismo italiano resta, comunque, Ladri di biciclette di Vittorio De Sica.
Entrambe le pellicole, del resto, mettono in scena la storia del tentativo di una rivalsa personale che è al tempo stesso il tentativo di ricostruzione di un’intera nazione (con Muccino siamo in piena era reaganiana). Tutte e due le pellicole raccontano la storia di un uomo obbligato a cercare "on the road" e portandosi sempre dietro il figlio soldi e lavoro anche se ad essere rubata non è una bicicletta, ma un complesso macchinario d’uso ospedaliero. E il capolavoro italiano è direttamente citato nella scena in cui Will Smith compra la barretta di cioccolata al figlio (a sostituire la più sostanziosa ed invitante mozzarella in carrozza di Ladri).
_ Eppure a vedere il film è un altro riferimento, più improbabile, ma più intrigante ad aiutarci a gettare una luce inedita sull’intera operazione: Der Letzte Mann di Murnau.
Come il capolavoro tedesco, anche The pursuit of happyness racconta la storia di una terribile discesa agli inferi che è sia sociale che personale. Come il film di Murnau anche quello di Muccino culmina nell’abiezione dei sotteranei rimossi della cattiva coscienza del mondo così detto civile e tutte e due le pellicole toccano il punto tragicamente più basso all’interno di un bagno: l’ultimo lavoro per l’eroe tedesco, l’ultimo rifugio per quello mucciniano che si sforza di preservare l’innocenza del figlio tappandogli le orecchie in una scena destinata a scolpirsi nei nostri cuori. In entrambi i casi, infine, la storia potrebbe concludersi nel silenzio dell’indifferenza se non intervenisse anche il caso (nella forma di un incontro fortuito, di una fortuna eridata o di una telefonata fatta al posto di un’altra) a ridefinire ogni cosa. Perché, resta il dubbio durante tutta la proiezione, la sola forza di volontà non può essere l’unica artefice della fortuna di uno contro il dolore di molti.
Non deve essere un caso che l’inizio vero della ripresa di Gardner coincida, nel film mucciniano, con la riparazione del macchinario per misurare la densità delle ossa.
Di notte, nel rifugio per senza tetto dove tutti dormono, solo Will Smith, insonne, lavora per sostituire la lampada dell’apparecchio rubato e appena recuperato (destino diverso da quello del personaggio desichiano e anche qui il Caso ha messo il suo zampino). Alla prova del funzionamento un solo potente fascio di luce illumina lo stanzone con l’arcana suggestione di un raggio di speranza in tanta miseria.
Sarà, ma quell’unico fascio di Luce che dà inizio al finale somiglia un po’ troppo al fascio di un proiettore cinematografico per non destare sospetti. Come a dire che da quel punto del racconto fino al prevedibile e necessario happy ending, lo spettatore è nel pieno del territorio del cinema e che certe storie e certi finali sono possibili solo nell’incantato e dorato mondo del film.
A Murnau il finale consolatorio fu imposto dalla produzione che non voleva che la storia finisse in tragedia così com’era nelle intenzioni dell’autore. Il finale di Muccino, con tutte i distinguo necessari in un’opera che trae spunto (modificandola) da una storia vera, non è un’imposizione di moda o di buonismo: viene dal mondo vero.
Ma, lo sappiamo, è proprio per quel finale più vero del falso che il film esiste. Fosse stato diverso (come diverso è, ogni giorno, per migliaia di persone) a nessuno sarebbe mai venuto in mente di farci un film. E forse quel proiettore riparato, col suo fascio di luce, sta lì a dirci proprio questo.
(The Pursuit of Happyness); Regia: Gabriele Muccino; sceneggiatura: Steve Conrad; fotografia: Phedon Papamichael; montaggio: Hughes Winborne; musica: Andrea Guerra; interpreti: Will Smith (Chris Gardner), Jaden Smith (Christopher), Thandie Newton (Linda), Brian Howe (Jay Twistle), James Karen (Martin Frohm), Dan Castellaneta (Alan Frakesh), Kurt Fuller (Walter Ribbon), Takayo Fischer (Mrs. Chu); produzione: Overbrook Entertainment, Escape Artists, Columbia Pictures Corporation, Relativity Media; distribuzione: Medusa; origine: USA, 2006; durata: 107’; webinfo: Sito ufficiale