La setta delle tenebre

Il terrore, quello vero, si annida sempre fuori campo. Si respira nell’azione e nelle parole davanti a noi, ma resta fuori dai bordi neri dello schermo, si scorge negli occhi e nelle parole dei personaggi. Ne è esempio Gomorra, in cui il ”terrore” della camorra è tutta nella contrapposizione tra le parole delle canzoni neo-melodiche vomitate da autoradio al massimo volume e il sangue sparso sui cementi delle vele di Scampia. Chi decide è fuori campo, il “sistema” permea tutto, ma non si vede se non nelle sue forme pornograficamente svelate dai gesti. In questo il film di Garrone è un vero film dell’orrore quotidiano, in questo La setta delle tenebre non riesce nemmeno per una lenticchia ad ambire a spaventare.
Un film nato vecchio già sulla carta, prodotto da oltre un anno e solo ora distribuito, noioso nel suo intreccio poco esaustivo, nell’errore primordiale della scelta della protagonista, una Lucy Liu mai calata nella parte, reduce dall’interpretazione della sanguinaria e, quella si, spaventosa boss di Tokyo sulla lista nera di Uma Thurman. Il citazionismo non salva, a partire dalla scena nell’obitorio, tenue scopiazzatura della claustrofobia della bara di Kill Bill, ma il film non si salva nemmeno con la presenza di un personaggio più interessante come quello del detective, che un violento Michael Chiklis ricalca dal suo Vic Mackey della serie tv The Shield.
Complice del disastro generale la continua ricerca spasmodica di una partecipazione emotiva dello spettatore alle vicende, attraverso trucchetti sonori, porte socchiuse e scale buie, riproposizione di tòpoi che hanno fatto la fortuna e il tedio della serie a stelle e strisce di The Grudge, prodotto non a caso dagli stessi fautori di Rise.
Il film classico di vampiri, di morsi al collo, di canini spuntati e di aglio salvifico da anni cerca nuova linfa vitale, nuovi approdi di intrecci e senso. L’appiglio alla realtà, fatta di vampiri nascosti sotto le sembianze di rampanti avvocati, cinici imprenditori e bancari dal grilletto facile all’assegno, appare in questa linea un utile diversivo alla noia e al dejà vu. Un canale che ha altresì già raschiato il barile e Rise non fa eccezione. Altra chiave tenta di giocare lo sceneggiatore-regista Gutierrez (all’attivo sceneggiature di Snakes on a plane, del bel Gothika e regista del remake di The Eye e di Judas Kiss) nel non proporre alcun elemento diretto per comprendere che di vampiri si tratta: nessun aglio, nessun paletto di frassino, nessun canino esagerato, ma solo occhiali da sole per riparasi dalla mortale luce solare. I vampiri si sono adattati, ricchissimi di ingegno e di pecunia, dai modi da noblesse oblige che nasconde crudeltà e sete di sangue e potere. A cento anni dall’invenzione del cinema già non se ne può più di codesti ritornelli.
Il tema della redenzione regna sovrano sulla storia, un riscatto che è naturale difesa ai torti, alle ingiustizie, al male che imperversa. Una redenzione che si tenta di mostrare come sul filo del rasoio, sempre tesa al bene, ma per sua natura invischiata nel tunnel del vampirismo, condizione incancellabile e ineludibile. Un tema, quello della vendetta, qui trasposto al femminile, reazione al peggiore dei crimini possibili, lo stupro. Una reazione che va di pari passo alla consapevolezza di una nuova vita, di una nuova esistenza, sotto forma di essere-altro, di vampiro. Una vendetta che proietta la protagonista nella categoria super-abusata del bivio dettato dal libero arbitrio. Uno schema tutto connaturato di colpa e di guide spirituali che aiutano nel nuovo cammino. Anche qui un guru improvvisato si farà carico, in una scena che risulta più un collante appeso a pera che una chiave di volta della vicenda, delle istanze della neo-vampira Lucy Liu assetata di vendetta. Non bastano alcuni cammeo a dare minima linfa all’interesse: dal volto istrionico e malinconico di Robert Foster (ennesima citazione tarantiniana) al rovesciamento di senso della presenza di un Marilyn Manson senza trucco e senza inganno nelle vesti di un barista con barba, divertissement incomprensibile, goliardica apparizione da annali dell’aneddotica.
Il ritmo incede senza sussulti, la paura non viene stuzzicata, ma è telefonata e prevedibile, basata su effetti sonori e una fotografia piattamente televisiva, segno dello spreco da parte del regista dell’apporto di un professionista come John Toll, due volte Oscar, artefice delle atmosfere di La sottile linea rossa, qui a mezzo servizio.
Un film che fa male al genere, una coltellata in pieno petto alla credibilità di un nuovo filone di vampiri al cinema, utile per una noiosa serata seduti in poltrona. Pensando al finale aperto, che il trailer in circolazione brucia senza tanti complimenti e citando il dylandoghiano Lord Wells, Rise si riassume come un’opera “Piuttosto imbarazzante, anzichenò”.
(Rise); Regia e sceneggiatura: Sebastian Gutierrez; fotografia: John Toll; montaggio: Lisa Bromwell; interpreti: Lucy Liu (Sadie), Michael Chiklis (Detective Rawlins), Carla Gugino (Eve), James D’Arcy (Bishop), Marilyn Manson (barista), Robert Foster (Lloyd), produzione: Mandate Pictures, Kingsgate Films, Ghost House Pictures; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Usa, 2007; durata: 100’; webinfo: Sito italiano del film
