La spina del diavolo

Il fantastico è da sempre una chiave di volta privilegiata dell’interpretazione che l’uomo cerca di sovrapporre al reale e al mondo che lo circonda.
Non occorre scomodare i grandi nomi della letteratura universale, non occorre tirare in ballo Shakespeare o Omero per rendersi conto di quanto la visione fantastica del mondo possa essere qualcosa di più che un semplice desiderio di fuga dal reale e che, dietro le fantasmaogoriche visioni che riempiono i nostri libri come pure i nostri film, si nasconda in filigrana un discorso non univoco sul senso stesso del nostro essere e del nostro significato.
La fantasia, insomma, viene impiegata, dagli autori più grandi ed importanti, non come valvola di sfogo o come scusa per attivare una vera e propria fuga dal contingente, ma come elemento critico e mitopoietico che, prendendo il più possibile le distanze da quello che siamo abituati a chiamare il prosaico vero "ad esso" finisce sempre per ritornare necessariamente.
Se il fantastico viene sovente utilizzato come rilettura trasfigurata del mondo, più raro è, invece, il suo utilizzo come interpretazione di una precisa realtà storica. Proprio in virtù della sua aura astratta ed indeterminata, infatti, il fantastico si presta bene a trasformare la piana narrazione di eventi in una metafora esistenziale o finanche politica del contingente, ma mostra la corda (o almeno così pare) quando il discorso di fondo abbandona "i massimi sistemi" dello spirito per andare a toccare uno specifico momento storico, magari sfiorato dal soffio gelido dalla tragedia.
Il passo dal sublime al ridicolo è sempre molto breve e, quando il discorso finisce per andare alla memoria degli eventi più terribili, l’aura fantastica può divenire un intralcio. Era capitato, ad esempio, a Christopher Hampton quando aveva contaminato la tragedia dei desaparecidos argentini con un racconto di sensitività e orrore (Imagining Argentina) realizzando uno dei film peggiori della storia del cinema.
Non è il caso di Guillermo Del Toro che, con La spina del diavolo (uscito nel resto del mondo nel 2001, poco prima della trasferta hollywoodiana dell’autore), costruisce un esempio interessante di rilettura fantastica di uno degli episodi più tristi della storia recente spagnola, quello della guerra civile.
Il tentativo di fondere in un unicum compatto e credibile le logiche del racconto di fantasmi di gotiche (e, quindi, nordiche) radici con la realtà assolata e rigogliosa della Spagna di Cervantes e di Calderon De La Barca non è del tutto nuovo, ma sorprende il piglio assolutamente autoriale con il quale il regista affronta la vicenda narrata tenendosi tenacemente lontano delle facili concessioni al genere.
Del Toro sembra essere più interessato alla realtà dei suoi personaggi più concreti e ai loro complessi rapporti interpersonali che alle apparizioni degli spettri e alle atmosfere spaventevoli. In un discorso più votato alle sottigliezze psicologiche che ai facili effetti, l’autore impagina un film per certi versi esemplare, tutto intessuto di attese e dialoghi e poco legato alla logica dello spavento fine a se stesso.
Coadiuvato dalla sempre splendida fotografia di Guillermo Navarro che lavora su una tavolozza brunita e pastosa che punta sulla consistenza degli ambienti e delle persone e non sull’evanescenza delle apparizioni spettrali, il regista compone una sottile ghost-story che contrappone al dramma esistenziale dei singoli il senso di crisi di un intero periodo e di un’intera nazione.
Certo agli appassionati del genere il film potrà apparire troppo verboso e non poco sfilacciato, ma a noi La spina del diavolo sembra un film tutt’altro che banale, un’incursione certo piena di difetti, ma coraggiosa nei labirinti della nostra cattiva coscienza storica e un tentativo spesso riuscito di rinverdire i fasti di un genere troppo spesso negletto.
Più vicino alle visioni apocalittiche di Goya che non alle raccapriccianti disavventure degli horror cloni ci cui è troppo piena l’industria americana.
(El espinazo del diablo); Regia: Guillermo Del Toro; sceneggiatura: Guillermo Del Toro, David Munoz, Antonio Trashorras; fotografia: Guillermo Navarro; montaggio: Luis De La Madrid; musica: Javier Navarrete; interpreti: Eduardo Noriega (Jacinth), Irene Visedo (Conchita), Fernando Tielve (Carlos), Inigo Garces (Jaime), Federico Luppi (Casares); produzione: Perdo e Augustin Almodovar per El Deseo S.A., Good Machine, Tequila Gang; distribuzione: Moviemax origine: Spagna, 2001; webinfo: Sito americano
