La terra

Forse il titolo dell’ultima fatica di Sergio Rubini, La terra, può risultare un poco fuorviante e, comunque, parziale per lo spettatore più avveduto.
Più che di una terra (sia pure magnificata e universalizzata dall’articolo determinativo “la”) si dovrebbe, in effetti, parlare al plurale di “le terre”. Tanti sono infatti i significati che ruotano intorno a questa parola, tante le metafore che corrono sotto il gioco delle immagini andando a comporre un mosaico variegato e di difficile decifrazione.
Certo c’è la terra come luogo fisico, come puro e semplice possedimento (e, quindi, come naturale accidente narrativo dal momento che è la scelta se vendere o meno un appezzamento di terra a fare da motore generatore di tutto l’intreccio). Ma c’è anche la terra come luogo dello spirito, come “madre” verso cui sempre tornare, come casa del cuore. C’è la terra da coltivare col sudore della fronte, la terra da combattere e governare, arsa dal sole e scarsamente bagnata dalla pioggia. E c’è, ancora, la terra come luogo sociale come realtà (anche politica) da contrapporre ad un sempre invisibile (nel film) mondo dell’industria e delle banche. La terra come Sud, insomma, come luogo di sentimenti pulsanti, tutto popolato di persone per lo più governate da passioni verghiane, in cui non c’è mai tempo per pensare e l’azione deve sempre passare per l’emozione, per le ragioni di un cuore che è tutto istinto e nervi contro un Nord che sembra essere, invece, tutto pensiero (grigio), ma anche capacità di piegare gli eventi, spesso con sotterfugi, alle proprie ragioni (è il caso del personaggio ottimamente interpretato da Fabrizio Bentivoglio, non a caso l’unico fuggito al nord quando era ancora adolescente).
La terra come luogo arcaico, insomma, al di fuori di ogni coordinata temporale, dove tutto si ripete con identica cadenza nel corso degli anni e dove la vita si misura ancora col ripetersi delle processioni devozionali che sono, come già in Cavalleria rusticana, il luogo ideale dove far esplodere le contraddizioni, le vendette, gli odi reciproci. Ma anche la terra come famiglia, come luogo in cui si rinnovano indefinitamente i legami di sangue e in cui si ricordano le promesse stipulate col solo involontario atto del nascere.
Sembrerebbe una tragedia greca imbevuta di terra e di vino (come quello rosso contenuto nella brocca che è la protagonista assoluta dell’ottimo prologo in salsa hitchcockiana), se non fosse per i continui salti di tono che popolano la pellicola rendendola sempre incredibilmente indefinibile.
Nella storia dei quattro fratelli che si ritrovano, si odiano, si capiscono, si accapigliano intorno ad un pezzo di terra che deve essere venduto, il regista vede prima di tutto una metafora sul senso sfuggente della vita e sul bisogno di confermare sempre, a se stessi e agli altri, il senso ultimo delle proprie radici culturali e familiari. Col suo film corale, che fugge lontano da ogni possibilità di intimismo da camera ed insegue, invece, gli estremi melodrammatici di una sinfonia brunita, Rubini non sembra davvero interessato a raccontarci l’Italia di oggi (ogni riferimento al mondo contemporaneo è puramente accidentale). L’ansia che muove il regista è, semmai, quella di lasciarsi trascinare nel gorgo della storia, respirare la stessa aria dei suoi personaggi paradossali creando un ibrido incredibile di modi e generi con uno stile registico che trascolora rapidamente dai toni turgidi della cronaca familiare alle logiche astratte di certo giallo alla Agatha Chistie, dai passi grotteschi della commedia italiana della migliore tradizione ai toni romantici del dramma sentimentale. Rubini pesca a piene mani dall’immaginario dell’italiano medio e non si tira indietro neanche quando il rischio televisivo alla Montalbano si affaccia all’orizzonte con la sua aria da triste deja vu. La sua macchina da presa sempre avvolgente, sempre in movimento, sempre pronta a partire su dolly che isolano i personaggi schiacciandoli al suolo di quella terra da cui provengono, incide con matematica precisione gli spazi del racconto sostenuta dalla musica effettistica di Pino Dosaggio.
Ne viene fuori un film tanto ambizioso nella forma, quanto privo, al fondo, di una reale urgenza espressiva. Un’opera densa e articolata, dalla visione limpida e piacevole, sostenuta da un cast sontuoso e da un raro (nell’industria italiana di oggi) senso del cinema, ma che ha il difetto di fermarsi sempre un passo prima di cominciare a dire qualcosa di davvero necessario sulla realtà nella quale viviamo e che sempre meno sappiamo conoscere.
(La terra); Regia: Sergio Rubini; sceneggiatura: Sergio Rubini, Angelo Pasquini; fotografia: Fabio Cianchetti; montaggio: Giogiò Franchini; musiche: Pino Donaggio; interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Luigi Di Santo), Sergio Rubini (Tonino); Claudia Gerini (Laura), Massimo Venturiello (Aldo Di Santo), Paolo Briguglia (Mario Di Santo) Giovanna Di Rauso (Angela), Emilio Solfrizzi (Michele Di Santo); produzione: Fandango; distribuzione: Medusa
