La terra dell’abbondanza (perchè si)

La terra dell’abbondanza non è soltanto, per Wenders, un film che nasce a ridosso di un evento epocale come l’attentato alle Torri gemelle di New York, ma è anche e soprattutto l’occasione per portare avanti una riflessione sulla realtà statunitense che il regista aveva già cominciato addirittura dai tempi non sospetti di Hammett e che aveva, in maniera più o meno coerente, costituito l’ossatura centrale dei due lungometraggi americani precedenti. Si tratta, in effetti, di un discorso squisitamente politico che cerca di rintracciare, tra le pieghe del reale, il significato del rapporto tra il potere precostituito e il singolo individuo. In Hammett tale discorso era già profondamente venato da un senso di disperato pessimismo dal momento in cui i vari personaggi erano letteralmente costretti a consumare le proprie misere esistenze all’ombra di una società di Potenti piuttosto invisibile e sfuggente e l’unica soluzione, l’unica possibile via di fuga (per quanto ancora ripensata in una logica possibilistica e sostanzialmente positiva) sembrava essere il rifugio nelle magie dell’arte e della pagina scritta. Gli stessi detentori del potere rivendicavano un controllo assoluto sul mondo circostante, controllo che si esprimeva, in una logica metalinguistica, nello spazio delle immagini stesse dal momento in cui potevano vantare il diritto di decidere quali immagini potevano circolare (quelle celebrative dei quadri appesi alle pareti dell’Ufficio di Polizia) e quali dovevano essere invece rimosse all’interno della cattiva coscienza sociale (le foto pornografiche scattate loro da un’acquiescente fotografico). Proprio la possibilità di controllare le immagini e, quindi, di poter controllare il mondo che quelle stesse immagini consuma in maniera sempre più indifferenziata, era al centro di Crimini invisibili che rappresentava, in termini spietati, l’assoluta fine del sogno americano secondo Wenders. Consumata nei luoghi riconoscibili di Hollywood il film poneva proprio l’accento su come il Potere (qui ancora più invisibile e subdolo che in Hammett) utilizza la valvola dell’immaginario cinematografico per riempire di terrore ed ansia le persone che, come ci insegna Orwell, sono tanto più controllabili quanto più sono mantenute in uno stato di paura costante. Su questa linea che va da Hammett a Crimini invisibili bisogna, dunque, collocare un film come La terra dell’abbondanza che porta questa visione di un Potere invasivo e violento alle sue estreme conseguenze andando, finalmente, ad investigare sulle conseguenze dell’azione sociale dei potenti sulle persone comuni. La domanda cui vuole rispondere Wenders è quindi: cosa significa davvero costringere un’intera popolazione a vivere nelle morse di una costante paura di aggressione? Quali sono le reazioni dell’uomo medio di fronte ad un’idea di Guerra assoluta ed eterna? Un discorso del genere si era, è vero, già affacciato nella filmografia wendersiana, nel precedente The million dollar hotel (al punto che non è inutile cercare un punto di contatto tra l’investigatore interpretato da Mel Gibson e il veterano della guerra del Vietnam “malato della sicurezza” efficacemente restituito, qui, da John Diehl) ma in La terra dell’abbondanza il discorso perde quella dimensione generica che conservava nel film precedente per assumere un significato più spiccatamente impegnato e quasi politico. Una novità, questa, in un cinema, come quello wendersiano che non ha mai cercato di farsi carico di discorsi così strettamente legati alla situazione politica contemporanea. Da questo punto di vista la propensione al buonismo di questa pellicola non risiede tanto nella scelta di una posizione super partes adottata per non scontentare nessuno, ma nell’invocazione di una risposta ultraterrena e divina (indicata nella dimensione della preghiera) a questo male di vivere contemporaneo. Di qui la presenza necessaria di Lana, l’ultimo angelo wendersiano, che è capace con la sua sola presenza, in un sussulto di speranza, di fare da specchio alle paure del mondo occidentale riconducendole (con momenti di commedia come sempre, in Wenders, piuttosto inefficaci) alla loro giusta dimensione. Sicché il confronto tra i due personaggi in viaggio (come già in Paris Texas) rivela, alla fine, il senso ultimo del discorso del regista: contro la corruzione dei valori, contro l’abuso indiscriminato di violenza perpetrato dal Potere nei nostri confronti, forse solo lo sguardo innocente di un bambino o di un angelo può davvero indicarci una via. Buonisimo? Forse, ma, almeno, sincero.
(Land of plenty); Regia:Wim Wenders; Sceneggiatura:WimWenders, Scott Derrikson; Fotografia: Franz Lustig; Montaggio: Moritz Laube; Musica: Thom & Nackt; Interpreti: John Diehl, Michelle Williams, Richard Edson, Wendell Pierce; Produzione: Reverse Angle International, InDigEnt; Distribuzione: Mikado; Origine: USA, 2004
[settembre 2004]
