Lavoro e precariato nel cinema italiano contemporaneo

E’ difficile sostenere che il tema del lavoro sia stato di moda nel cinema italiano degli ultimi dieci anni. Il dominio della commedia giovanilistico-borghese è stato combattuto da autori che non hanno costruito la loro poetica attorno a un tema comune. Il bipolarismo squilibrato del cinema italiano è stato composto da film molto simili da una parte e da altri molto diversi (e liberi) dall’altra. Il tema dell’immigrazione ha abbracciato alcuni film degli ultimi anni (Saimir, Le ferie di Licu, Apnea, L’orizzonte degli eventi, L’orchestra di Piazza Vittorio, La sconosciuta, Il mondo addosso, Quando sei nato non puoi più nasconderti, Riparo, Come l’ombra, Cover Boy, Mar Nero, Billo), ma non abbastanza per parlare di unità o di predominio tematico. Il tema del lavoro si è affacciato raramente nel nostro cinema dell’ultimo decennio e lo ha fatto con film in qualche caso molto interessanti, e in altri meno. Non esiste in Italia la talentuosa costanza di un regista come Ken Loach e nemmeno la potenza di forma e contenuto (racchiusa in due soli film) di un regista come Laurent Cantet (Risorse Umane, A tempo pieno). Non abbiamo la fortuna di vantare un capolavoro come quello di Costa Gavras, Il tagliatore di teste, ma esistono alcuni film, buoni e sporadici, che hanno saputo legare i problemi legati all’occupazione a pellicole qualitativamente valide. Sono film che hanno resistito ai retaggi culturali della commedia e del melodramma con più o meno energia, cedendo in molti casi del tutto e tenendo botta in altri quasi fino alla fine del film. Nell’ultimo anno, tuttavia, il 2008, il cinema italiano sembra aver trovato nel lavoro precario, e più dettagliatamente nel suo simbolo fisico (il call center), il terreno su cui costruire un cinema multiforme e di un certo impegno sociale. Aprile 2008. Esce in poche sale italiane un film giovane e indipendente. Si intitola Riprendimi e lo ha scritto e diretto la regista Anna Negri. Parla di un amore finito e di altri amori appena nati. Ma è anche la storia di due ragazzi che vogliono realizzare a “tutti i costi” un documentario sul lavoro precario. Sono convinti che sia necessario parlare del disagio dei lavoratori a termine. Di quei ragazzi, cioè, ormai adulti, che non conoscono futuro oltre ogni contratto, anche se hanno figli e professionalità acquisite nel tempo. Riprendimi mette in scena un tentativo di indagine sul precariato e lo lega a tematiche contemporanee quali la coppia e i sentimenti. I contenuti del film sono espressi in forme linguistiche recenti, come la commistione di finzione e realtà e l’uso del digitale. L’idea di un documentario sul precariato all’interno di un film generazionale non è un semplice artificio narrativo ma rientra in un rapporto tra tematiche e film a cui il cinema italiano sembra mostrare, da qualche tempo, un certo interesse. Marzo 2008. Esce in sala una commedia di costume che parla di call center e precariato. La firma Paolo Virzì e la intitola, con triste sarcasmo, Tutta la vita davanti. E’ il film che porta l’argomento lavoro, giovani e precariato in quei cinema di periferia zeppi di schermi, di scale, di confusione e lunghissimi blocchi di pubblicità. E’ la pellicola che fa assaporare la preoccupante questione sociale agli spettatori distratti di una commedia con attori famosi. E’ il film che fa masticare ad evasioni disinteressate parole come precariato, progetto e sfruttamento. E’ il film che fa chiedere a tante persone se esista davvero un luogo orribile come quello del call center. Pochi giorni prima è uscito (anche stavolta in poche sale) un film di Carmine Amoroso dal titolo Cover boy. E’ un lavoro “piccolo”, indipendente e digitale. E’ una storia di amicizia, immigrazione e precarietà. E’ un film su cui soffia una brezza “fastidiosa” e benvenuta di realtà e concretezza. E’ un lavoro di indigesta normalità e di triste quotidiano. E’ il rapporto tra due drammatiche insicurezze in cui è centrale il problema del lavoro. Cover Boy è un’istantanea sulla condizione del precariato oggi. “Se non hai soldi e famiglia alle spalle, sei straniero anche a casa tua” - dice uno dei protagonisti - “Ho avuto molti contratti ma mai un’assunzione. Se non avessi i miei genitori non potrei permettermi l’affitto a Roma e neanche quel minimo sindacale di sfizi necessari ad un ragazzo della mia età.” Ottobre 2007. Per lo spettatore “impegnato” (o più direttamente interessato all’argomento precariato) il cinema italiano si attiva con due documentari all’interno della Festa del cinema di Roma: Le pere di Adamo di Guido Chiesa e Parole Sante di Ascanio Celestini. Due opere che figurano nella sezione più interessante e innovativa della manifestazione: la sezione “Extra”. Entrambi i film affrontano direttamente la questione dell’impiego precario. Sono opere molto diverse tra loro per linguaggio e impostazione. Più ricco, elaborato e filosofico il primo; decisamente più povero, semplice e preciso il secondo. In Italia i lavoratori precari, i non imprenditori di se stessi, sono intorno ai quattro milioni e una percentuale significativa è rappresentata da ultra quarantenni. Il precario italiano di Cover Boy (Luca Lionello) non è certo un ragazzino e non lo sono nemmeno i protagonisti di Giorni e Nuvole di Silvio Soldini, altro film presentato alla “Festa di Roma” con personaggi di “vecchia generazione” ripiombati nel presente e completamente travolti dalle sue dinamiche. E’ un film di licenziamento, di perdita del lavoro e di fiducia, di colloqui, di paura e curricula. E’ una storia di adulti che scoprono la flessibilità e che provano a reinventarsi mentalmente elastici. E’ una storia in cui fa capolino l’ormai classico call center, con i suoi tre mesi di prova, le cinquecento euro al mese e la chiusura dentro un capannone con altre cento persone a vendere creme e prosciutti. I toni drammatici del film di Soldini, appena addolciti da un finale speranzoso, aperto e stretto negli affetti, diventano più leggeri nel film di Anna Negri. Come se la generazione che oggi ha trent’anni stia sviluppando gli anticorpi per sopravvivere attivamente in questo oceano tempestoso. I protagonisti di Riprendimi sanno descrivere lucidamente la loro situazione, l’argomentano con precisione, profondità e qualche sorriso. Sembrano rassegnati ma al tempo stesso posseggono una notevole vitalità ed un equilibrio, appunto, molto precario. Potrebbe non essere del tutto casuale la presenza di Alba Rohrwacher in tutti e due i film. La ragazza dai capelli rossi è precaria in entrambe le pellicole ed è lei che in Giorni e Nuvole, prende per mano la disperazione triste dei genitori. Convive con un ragazzo e con lui ed altri amici ha avviato una attività di ristorazione. Da perdere non ha moltissimo ma difende coscientemente quello che ha con una serenità ed un candore forse vincenti. Si muove in motorino, si dà molto da fare con fermezza e discrezione ma non rinuncia a leggere la letteratura che l’appassiona. Alba Rorwacher è una giovane attrice generazionale. Nel film di Virzì e nel documentario tecnologicamente super leggero di Celestini (due dialetti distanti di una stessa lingua) il call center è al centro della riflessione. E’ un posto assurdo, misterioso ed inquietante. Buono per imprenditori senza scrupoli e per diventare il simbolo di una condizione lavorativa divenuta generale. E’ l’anticamera della disoccupazione ma diventa un ricatto silenzioso per tutti quelli che lo incontrano. L’ “operaio” da call center è il più fragile tra i fragili. Economicamente e psicologicamente. Il call center è l’emblema di un lavoro indefinibile e senza senso, senza dignità e senza identità. E’ la forma di precarietà che meglio esprime ciò che non si è, che meglio produce un’insicurezza materiale ed esistenziale. Quel (non) luogo di lavoro rappresenta chi vive esclusivamente nel presente perché non può ipotecare nulla. Descrive chi attende il giorno della “scadenza” per conoscere il suo futuro. Chi non può andar via di casa perché l’affitto è superiore allo stipendio. La percentuale delle famiglie italiane che hanno ancora in casa un figlio sopra i venticinque anni è passata dal 14% del 1995 al 30% del 2008. In Italia tra coloro che vivono sotto la soglia di povertà quasi il 15% è costituito da giovani precari. Niente soldi, niente casa, niente figli. Il call center è il più incisivo cancellino dell’idea che la flessibilità sia uno strumento contro la disoccupazione. Annulla la teoria per cui le persone sceglierebbero di essere flessibili per sentirsi più libere nel lavoro. E’ la più forte dimostrazione di una subordinazione (mascherata da lavoro autonomo) che fa risparmiare soldi alle aziende a scapito dei lavoratori. E’ la chiarificazione del contratto a progetto: l’obbligazione al precariato. L’unica cosa a tempo indeterminato del nuovo lavoratore dipendente è lo stato di precarietà. Dietro quel “Buongiorno sono Tizio in cosa posso esserle utile” si sintetizza un’intera generazione. Un esercito di invisibili in attesa di meglio, di fantasmi privi di rappresentanza politica. L’umanità di un fenomeno sociale e culturale che ha dato vita a canzoni, libri ed ora a film. Che sembrano l’unica possibilità, per chi è vittima di questa piaga recente, di trasformarsi in soggetto politico, civile e mediatico. Il cinema contribuisce a veicolare la radiocronaca, ancora a basso volume, delle coscienze giovanili con contratto a termine. Torino 2007. 25esimo Festival del cinema. Un gruppo di manifestanti sfila davanti al cinema “Massimo” con dei cartelloni su cui è scritto Fuga dal call Center. E’ il titolo di un film in lavorazione su cui si cerca di sensibilizzare l’attenzione. L’allegro manipolo avvicina il direttore Nanni Moretti e gli parla di questa indagine sociale diretta dal regista milanese Federico Rizzo. Chiede a Moretti se vedrà il film e lui risponde di si, se e quando uscirà. “Perché”- conclude il regista - “di italiano vedo tutto”. Fuga dal call center è un progetto di docu-fiction nato tre anni fa ed è uno dei tanti film avventurosi del nostro presente cinematografico. E’ basato su interviste a lavoratori di call center invitati, da tutta Italia, a raccontare la propria storia. “Non c’è la possibilità di un caffè con calma” - dicono nei frammenti di film visibili su You tube - “nè di fermarti a parlare con una collega”. I loro racconti compongono la sceneggiatura del film, a cui hanno collaborato anche attori impiegati “temporaneamente” nel settore. Il regista ha chiesto loro di partecipare al film e la descrizione di ciò che accade in quelle ore di lavoro rafforza le immagini dei film di Paolo Virzì e Ascanio Celestini. Si insiste molto sulla mancanza di scrupoli dei padroni, si calpestano l’umanità, le regole e la dignità legata al lavoro. Viene stabilito un metodo meschino di persuasione e si pone l’accento sull’ottimismo tristeParole santemente imposto dagli sms e le canzoni di Tutta la vita davanti. La situazione dei call center in Italia è quella di molti laureati che si trovano a dover trasformare un momento di passaggio in una vera e propria prigione. In Italia esistono più o meno 700 aziende di questo tipo, collocate per la maggior parte al centro sud. Luoghi che danno lavoro, si fa per dire, a circa 75 mila persone, in maggior parte a donne sotto i trent’anni, con laurea o diploma di scuola superiore. Due terzi dei lavoratori ha un contratto a progetto, lavora quattro ore al giorno e guadagna circa 500 euro al mese. La percentuale di chi lavora in un call center è non è poi così robusta rispetto a tutte le forme precarietà del giovane lavoro contemporaneo. Ma le sue regole e il suo esempio formano un paradigma che fornisce poche speranze ed una certezza: dal dopoguerra ad oggi questa è la prima generazione in cui i figli sono più poveri dei padri. Federico Rizzo ha scelto il linguaggio della docu-fiction e il suo film andrebbe a costituire la prima trilogia italiana sul call center. E’ interessante il fatto che siano tre film linguisticamente complementari a dare voce e immagine al problema. Un documentario, una commedia popolare e un esperimento ibrido tra finzione e documentario. Tre film di origine diseguale e destinati a un pubblico di diverse latitudini. Il documentario è di Ascanio Celestini. Il regista incontra gli ex precari del più grande call center italiano, “Atesia”, e rinnova la sua passione per le storie di gente comune vittima di situazioni estreme. Quattromila impiegati ammassati in un condominio dalle parti di Cinecittà. Trecentomila telefonate al giorno, ore ed ore davanti a un computer, le risposte ai problemi dei clienti pagate a cottimo. Sotto i 20 secondi di durata nessun compenso. 85 centesimi se si trattiene l’utente fino a 2 minuti e 40 secondi. Poi basta, di più non si guadagna. Parole Sante è una storia di esistenze metropolitane, di parole e sguardi, di domande scomode, di numeri paurosi, di disagio emotivo e quotidiana ingiustizia. Celestini consegna conoscenza e stimola la riflessione con una vicenda che getta il suo significato su un’intera generazione. C’è una metafora che annuncia il pericolo e anticipa la catastrofe, un piccolo apologo che apre e chiude il film: un’insignificante goccia d’acqua. Poi un’altra e un’altra ancora, fino al diluvio devastatore che fa crollare tutto. Dal fenomeno circoscritto e sensazionale il regista ricava l’estremo paradigmatico di una situazione generale riguardante un numero enorme di persone: la scandalosa e quotidiana realtà di una condizione di precarietà economica cronicizzata. Quella che la generazione dei ventenni-trentenni sta vivendo in primissima linea. Parole Sante è la storia esemplare di una condizione socio-esistenziale e la cronaca di una ribellione bianca, di un’invisibile e rassegnata rivoluzione. Sono giovani simpatici quelli che raccontano la loro storia al regista. Normali, come la tv (e spesso il cinema italiano) non li racconta, coscienti e leggeri come molti altri giovani. Fragili come lo sarebbe chiunque al loro posto. Non troppo distanti dai giovani raccontati in Riprendimi di Anna Negri. Hanno voglia di vivere e combattere, hanno l’aria di non sapere molto di “Grande Fratello” e si sono ribellati a quei caporaletti che per pochi spiccioli avrebbero voluto comprimerne i diritti. Gianluca, Cecilia, Emanuela, Christian, Alessandra, Andrea, Valerio, Giuseppe, Marco, Mara e Maurizio. Nomi comuni di persone comuni, non particolarmente belle, né stupide o straordinarie. Celestini rende visibile il loro sforzo e quel licenziamento inaccettabile (o meglio la non riassunzione) per aver rivendicato le proprie ragioni. Non procede verso un’inchiesta fredda ma lavora lucidamente di cuore ed ascolto, politicamente perché riempie ogni momento di passione etica. Costruisce un film civile, sociale e lievemente ironico su una generazione che, a dispetto della sua rappresentazione, non ha perso la voglia di associarsi, di solidalizzare e di ballare su un precipizio più facile da sentire che da vedere. Il viaggio a piedi di Ascanio Celestini passa per la stessa moderna e “palazzinara” periferia romana in cui è piazzata la macchina da presa di Paolo Virzì. Ma l’autore romano non incontra Isabella Ragonese, l’ultimo angelo virziano caduto dal cielo di provincia in una gabbia di pollame gestita da impotenti galletti e da tragicomiche gallinacce. E non incontra nemmeno quel pollame coatto di cui è zeppo Tutta la vita davanti. Parole sante è stato ironicamente definito dal suo regista “un film un pò loffio e un pò moscio perché privo di azione e di avventura”. Mancano i contrasti forti: i buoni, i brutti e i cattivi di Tutta la vita davanti. Non c’è la ragazza dolce, saggia e buona cresciuta a prodotti regionali, antichi valori e ragionamenti semplici e franchi. Né la sua super intelligenza di cultura contadina, anzi pescatrice, a svettare dalla massa inebetita e a conquistare chi guarda. Parole sante non punta sugli occhi lucidi e brillanti degli antieroi Virziani, che capiscono ma non reagiscono, se non con una riflessione costante e silenziosa sui privilegiati figli della solita borghesia ben piazzata tra sampietrini e ministeri. Non perviene il dialetto siciliano appena accennato della protagonista Marta, accattivante e quasi nascosto in un sorriso malinconico e spento. E’assente la sua purezza ingenua e idealizzata che osserva il marcio della società con la calma e la pazienza dei migliori. Quello di Celestini è un semplice documentario. Un esempio di realismo militante e di controinformazione cinematografica basata su testimonianze dirette. E’ un lavoro di intelligenza e sensibilità che può aggiungere consapevolezza e conoscenza al cammino in salita di quella piccola fetta di paese che si è accorta dell’esistenza del film. Il regista non usa scenografie ma interni normali e disadorni. Recupera dal presente una memoria collettiva di silenzi sociali e storie paradigmatiche. Presta la voce a chi voce non ha perché la smarrisce dolorosamente nell’assenza di potere e nella mancanza di autorevolezza. Davanti al suo risultato viene voglia di credere a un interessamento disinteressato per i più deboli. Atteggiamento da prendere sempre con le molle perché sospettabile di perversione ed egoismo: scrivere un’opera sui poveri, mostrando a tutti la loro piaga putrida, profanandogli l’intimo per ricavarne guadagno e nobilitazione. Sfruttare la disperazione, il bisogno di aiuto, l’appetitosa fragilità. E’ il sottile e cinico meccanismo della vendita dei disagi, che può portare allo sviluppo di modelli vincenti (e svuotati) da tagliuzzare e rimontare per piazzarli sui banchi di ogni mercato, anche di quello televisivo di ogni fascia oraria e palinsesto. L’autore impegnato ne esce sempre da signore ma va detto che, al di là delle intenzioni e dei padroni primi di ogni opera, un buon documento diventa patrimonio comune ed ognuno può diventarne proprietario e gestore. Al di là di questo il lavoro di Celestini, per la sua sobria serietà e per il percorso artistico dello stesso narratore romano, sembra un lavoro sincero. Nel suo film si respirano l’attualità del rapporto tra i giovani italiani e la classe politica, il loro disagio sordo e poco organizzato, la paura espressa col sorriso, l’abbandono sofferto ad una realtà difficile da contrastare. Anche Virzì devìa buona parte del suo tacito autobiografismo alle esigenze del tempo e del costume. Inclina il canovaccio della sua tattica cinematografica verso l’Italia più contemporanea e pubblica. Contribuisce, senza rinunciare al cinema che lo ha reso famoso, a sferrare i primi calci contro la porta del precariato. Prende spunto dal diario-blog (ora diventato un libro dal titolo Il mondo deve sapere) di Michela Murgia, giovane neolaureata sarda che con ironia e sdegno ha confidato al mondo del web le sue allucinate esperienze in un call center. Tutta la vita davanti non rinuncia agli stratagemmi cinematografici capaci di abbracciare un vasto pubblico e schiera le forze della sua sgargiante favola sociale a favore di chi va al cinema senza sapere cosa c’è dentro un film. Il regista diverte il pubblico (anche quello più esigente) mostrando il malessere nazionale e sfruttando tutti i segreti di quella tragicommedia (seriamente divertente) che paga un prezzo di compromesso al botteghino. Carica le figure di grottesco per creare cinema e sentimenti contrastanti, situazioni antagoniste che obbligano allo schieramento spettatoriale. Organizza con acume e sottili intuizioni lacrime e risate, indignazione e assoluzioni finali. La protagonista si avvicina all’idealizzazione dei personaggi di Celestini, Rizzo ed Anna Negri, mentre gli altri personaggi del film sembrano risentire della rappresentazione televisiva, comunque non antirealistica, della massa giovanile. Nel film è confermata l’Italia divisa in due blocchi diseguali con poca cultura ammassata in un angolo e tanta ignoranza sparsa lungo l’intera superficie. Tutta la vita davanti è un film manicheo e nostalgico che rilegge la tradizione cinematografica nostrana e la rielabora spingendo sulle macchie e sulle sensazioni. Pone su una fila i brutti, su un’altra i cattivi e in mezzo lascia che “impazzisca” la buona, santa, sola e precaria. Il film parla, con le immagini forti di una commedia amara, a una moltitudine estranea al pubblico di Celestini, Amoroso e Negri, e lo fa con un linguaggio conforme alle abitudini e alle aspettative dello spettatore medio. Il suo faro sull’inaccettabilità delle dinamiche lavorative contemporanee (e sul fatto che i giovani siano indotti all’abbandono della sanità mentale) è il più lungo e potente di tutti. Tutta la vita davanti contribuisce a rendere super visibile il disagio (non solo) generazionale della nostra cultura e aggiunge valore al discorso già avviato sui giovani e sui loro problemi socio-esistenziali e di lavoro. Mostra la fenomenologia del mostruoso eco-bio-mostro call center narrato nelle pagine di “viaggio” di Celestini e Rizzo. Troviamo la competizione accanita e l’euforia coatta, il raggiro telefonico dell’acquirente e il brusco licenziamento degli inefficienti, i rituali e le gratificazioni familistiche, la mancanza di diritti sindacali. L’insicurezza e la paura come sentimenti contemporanei. Pazienza se in alcuni casi le sue macchiette si sostituiscano a vere e proprie maschere e se il film non lasci in bocca quel sapore forte di alcune, poche, grandi “commedie” del passato. Il cinema italiano che a fatica sta smuovendo le acque solide del tema lavoro può trovare in Tutta la vita davanti il film più capace di aprire il varco a una piccola rivoluzione tematica nel cinema italiano di consumo. Compresa la commedia, persino quella giovanilistica, scatolame amoroso sempre aperto a nuove sfumature. Ne guadagnerebbe il nostro cinema se fosse, e pure la nostra società, ma non è detto che sia. Il mondo del lavoro ha partecipato alla storia del cinema italiano recente con pochi film ed ha scelto, molto spesso, di insistere sul privato di un universo borghese, professionista avviato. Il precariato espresso dal cinema italiano degli appartamenti a ridosso del centro di Roma, è stato quasi esclusivamente di un’origine sentimentale svincolata da preoccupazioni economiche. Il lavoro è servito agli architetti single, agli psicanalisti annoiati, ai manager distratti ed ai designer divorziati, nonché agli studenti da Mamiani alle prese con notti di pizze fredde e di calzoni, per fare da quinta a discussioni e riflessioni telefoniche sul “ti mollo, ti riprendo ed io chi sono?”. I corridoi degli uffici hanno visto passare i colletti di protagonisti in tiro con la testa a un appuntamento risolutore(?) di insoddisfazione cronica. Hanno avuto più spazio i salotti, le cene, le fughe e i conflitti urlati tra genitori, figli, mogli e amanti. I giovani protagonisti di queste pellicole sono figli e mai padri. Da figli si comportano, tentando di risolvere il rapporto, spesso conflittuale, con genitori posizionati che si chiedono dove hanno sbagliato. Il cinema italiano degli ultimi anni è stato molto influenzato da un perimetro romano di pochi chilometri quadrati che parte da Ponte Milvio e arriva a sfiorare piazza del Popolo. E’ un cinema abitato da ragazzi borghesi più interessati a cercare di raggiungere un modello di individualismo imposto che a scontrarsi con il lavoro precario. Poco lavoro e molti amori, passioni, solitudini, motorini ed automobili. E’ un elenco di film Mucciniani, Ozpeteckiani e Mocciani che arriva a sfiorare quel Caos Calmo, elegante e borghese, in cui il lavoro va a riprendersi il ribelle che lo aveva clamorosamente abbandonato. Un caso a sé è quello del film La Febbre di Alessando D’Alatri. Il suo protagonista (un Fabio Volo piuttosto a suo agio) combatte contro le antiche prigioni del claustrofobico posto fisso e (soprattutto) contro i suoi soprusi mediocri, regolari come gocce d’acqua di un rubinetto non chiuso a dovere. Sebbene non provenga da una condizione economicamente vantaggiosa e sebbene tenti di stabilire con il suo impiego comunale un rapporto costruttivo e maturo, la sua è una ribellione borghese alla noia e ad una vita fatta di anonime certezze ed insopportabili ipocrisie. In nome della libertà e del rispetto per la propria interiorità reagisce alle violenze di un posto di lavoro (di olmiana memoria) per tornare a respirare creativamente secondo regole individuali. Non vuole fare la fine di quegli impiegati (suo padre compreso) che hanno vissuto alla catena di un superiore ignobile per morire il giorno dopo la conquista della pensione. C’è chi può condannare la violenza del lavoro pur riconoscendone gli aspetti positivi e i vantaggi sociali che dà, e chi del lavoro vive solo la necessità nel terrore della sua assenza o dei suoi diktat mostruosi. C’è un cinema (poco allegro) dei sogni più forte (nel senso di rapporto con il pubblico) di uno triste degli incubi. Il problema è più che mai quello che attanaglia il cinema dai tempi del Neorealismo: ha voglia la gente entrando in una sala (o affittando un dvd) di ritrovare sullo schermo gli aspetti crudi della realtà? E’ sulla base di questo concetto che i film italiani sono ben attenti a non disturbare il pubblico abituato a cercare nel mezzo cinematografico evasione e divertimento. E quando lo fanno sono molto accorti ad inserire lo “stomachevole” all’interno della commedia e del melò. Il cinema di Vincenzo Marra sembra andare contro corrente. La sua opera è stata certamente aiutata dal contesto socio culturale dei suoi primi due lunghi e dei suoi due documentari “napoletani”. Napoli (e il suo cinema negli ultimi anni lo ha dimostrato ampiamente) è un luogo in cui il disagio sembra affondare le radici in ragioni e tempi lontani. Il suo dramma sembra immerso in un tempo altro rispetto a quello della nostra società e del cinema italiano. Il lavoro è chiamato “fatica”, l’ingiustizia e la sofferenza sembrano malattie storiche e congenite. I protagonisti di Tornando a casa e Vento di Terra, narrati con asciuttezza e dolore neorealistici, vorrebbero avere una vita tranquilla ed un lavoro sicuro ma le sofferenze che vivono appartengono a un precariato non generazionale. La condizione di instabilità totale è vissuta con la schiena curva e la testa bassa di chi non ha la coscienza di aver perso potere e identità, perchè la realtà in cui sopravvive è tanto ingiusta quanto immobile e tradizionale. Marra gira senza alcun compiacimento e rinunciando al melodramma anche quando il protagonista di Vento di terra spiega alla sua ragazza che si debbono lasciare, perché lui non ha lavoro e ha troppi pensieri. Più legato al presente è il suo terzo film, L’ora di punta, girato a Roma e fortemente legato al tema del lavoro. Il protagonista, a differenza di quelli precedenti del regista, somiglia molto di più a un’Italia feroce, arrivista e senza scrupoli. In mezzo alla guerra, alla giungla e all’ultimo disastro socio-culturale, il suo personaggio sceglie di essere predatore. L’ora di punta è un film sui padroni, sul potere e sulla violenza economica nei nostri tempi, accostabile, per scelte tematiche, alla pellicola di Francesca Comencini, A casa Nostra. Il denaro è il protagonista di entrambi i film ed è la sua malvagità ad aggredire mortalmente gli universi affettivi dei protagonisti. Sono poche le pellicole italiane che negli ultimi anni hanno affrontato problematiche legate al lavoro. Gli operai sono quasi scomparsi dal nostro cinema e la loro (rara) presenza è stata disciolta nell’amore, nell’amicizia, nelle inquadrature e nelle note di film accativanti. Quando c’è, la fabbrica chiude all’inizio dei film e la protesta operaia (per la sua riapertura) descrive la fine di un’era e di quel luogo in cui era stato possibile trovare una forte identità sociale. La fabbrica italiana viene descritta come un luogo in decadenza ed i suoi lavoratori si trovano ad affrontare una triste mezza età senza le (drammatiche) sicurezze (non solo economiche) che la sua presenza gli aveva (a caro prezzo) concesso. Era già accaduto nel primo film di Virzì, La bella vita, che tre amici operai di Piombino finissero disoccupati e si disperdessero dentro un’altra economia e nel loro cupo disagio privato. Dello stesso periodo (metà anni novanta) era il bel film di Pasquale Pozzessere, Padre e figlio, in cui lo scontro generazionale era basato sulla fiducia nell’etica del lavoro da parte del padre (la dignità di chi riesce ad assicurarsi ogni mese la busta paga) e l’appartenenza ad un mondo privo di illusioni da parte del figlio, che vedeva nella fabbrica una galera e nell’avvenire una strada senza speranze. Nel film Liberi (di Gianluca Maria Tavarelli) gli operai perdono il lavoro dopo qualche minuto ed uno di loro si suicida. Un altro si improvvisa muratore e minaccia di farla finita, mentre i restanti licenziati scompaiono dal film per fare spazio alle effervescenti effusioni amorose del bravo Elio Germano con la deliziosa Nicole Grimaudo. Nel film Il posto dell’anima (di Riccardo Milani) la dissoluzione della fabbrica si accompagna a una protesta infarcita di amori difficili e a complessi rapporti con figli estranei ai valori dei padri. Subentra l’accesso rassegnato a nuove professioni di fortuna e il problema sociale si annacqua di inquadrature eleganti accompagnate dalle note dei Cold Play. Il posto dell’anima ha il merito di ricordare che di fabbrica si muore ma il cancro finale di Silvio Orlando sembra un po’ troppo attento a sconquassare definitivamente il cuore già provato dello spettatore. (Il tema delle morti bianche è centrale anche nel film di Roberto Dordit Apnea ed è un argomento che sta iniziando a toccare i contenuti del documentario italiano recente. Pensiamo al film di Daniele Segre, Morire di lavoro, a quello di Daniele Gaglianone, Non si deve morire per vivere, e al progetto che sta portando avanti Mimmo Calopresti sugli operai della Thyssen). L’ultimo film che accenna al rapporto tra fabbrica, padri e figli è quello offerto dal regista sardo Enrico Pau. Nella pellicola Jmmy della Collina la fabbrica compare all’inizio del film per disperdersi poco dopo in una storia di emarginazione e sofferenza. Rimane in scena quanto basta, tuttavia, per mostrarsi come un luogo dei padri, di cui i figli conoscono soprattutto i lati negativi e da cui prendono le distanze. Il problema dei film italiani sul lavoro non è tanto la presenza della commedia e della ricerca di contrasti emozionali di fronte a temi scottanti. E’ il dosaggio delle formule a cui si sceglie di ricorrere che fa la differenza. Un valido esempio di rapporto tra denuncia e saliscendi emotivo è quello del film I Lunedì al sole, dello spagnolo Leon De Aranoa. Nel suo film si parla di disoccupazione e si ride, si piange e si pensa. Il risultato finale è quello di un film molto bello. Del resto il cinema italiano sulla fabbrica è stato costruito tantissimo sulla commedia. I nostri film sull’argomento hanno descritto bene, senza rinunciare ai consensi di massa, la vita, le abitudini, il disagio e i sentimenti delle figure che andavano a popolare questa fonte di vita e di morte al tempo stesso. Un lungo elenco di film accompagna i decenni cinematografici italiani sulla fabbrica dal dopoguerra agli anni ottanta. I compagni, Romanzo popolare, Omicron, Trevico -Torino, viaggio nel fiat-Nam, Mimì Metallurgico, Il maestro di Vigevano, La classe operaia va in paradiso, Delitto d’amore, Napoletani a Milano di Eduardo De Filippo, la cui macchina da presa faceva da locomotiva a quel lungo viaggio cinematografico da Sud verso Nord. Era un movimento forzato di addii alla terra, di scarico bagagli alla stazione ferroviaria. Di chiassosa e stridente catena di montaggio. Quel film già parlava di protesta operaia e di meridionali costretti ad inventarsi l’alternativa a una tradizione secolare. Era l’inizio di un cinema su decine di migliaia di trapiantati pronti a sconvolgere, loro malgrado, la demografia e l’urbanistica delle città inospitali che li avrebbero trasformati in massa operaia. Film di pause pranzo e molte ore di fatica, di sciopero ed affetti, di operai in odore di coscienza politica. Sospesi davanti alla fabbrica “come un bambino davanti al panettone” (diceva Tognazzi in Romanzo popolare). Film in cui affiorava lo sgretolamento della famiglia e di tutto un sistema culturale. Era un cinema di “Abbracciame paisà”, di madri e fratelli lucani, “senza lingua” campani e siciliani, di notte, con i pacchi ed un misto silenzioso di paura e speranza. Il cinema italiano della fabbrica non ha rinunciato agli elementi melodrammatici e comici e li ha utilizzati per descrivere un universo esistenziale fatto di sentimenti e tradizione. Attraverso quel linguaggio è riuscito a restituire la precisa identità sociale e culturale dell’individuo lavoratore che mangiava “meridionale” e faceva l’orto sul balcone delle “case alveare” (come le chiamava Giuliano Gemma nel film di Luigi Comencini Delitto d’amore). La fabbrica è stata il luogo dove molte persone hanno acquisito la consapevolezza della propria posizione e dei propri diritti. C’era l’orgoglio di appartenere a quella classe sociale e gli stessi lavoratori parlavano di “aristocrazia operaia”. Oggi non esiste un racconto epico sul presente della fabbrica e nemmeno una classe operaia in grado di trovare nella fabbrica l’unità sociale del passato. Non esiste un luogo sostitutivo della fabbrica che sappia radunare le coscienze e trasformarle in una sola collettiva. Non è semplice descrivere la sintesi di mille specializzazioni professionali di un presente frammentato e il precariato sembra l’unico comune denominatore del lavoro contemporaneo. Perché il call center è prima di tutto il simbolo di una non identità e ed è solo su questo concetto che i giovani si possono identificare: sull’impossibilità di trovare il modo per diventare adulti. Il call center si propone come impiego temporaneo, come ripiego incapace di garantire sopravvivenza a lungo termine e non come un luogo che crea definizione e appartenenza. Tra l’altro non accorpa in sé un’unica fascia sociale o culturale. Racchiude la totalità di una generazione che, laureata o no, coatta o no, non trova di meglio. Ecco la grande differenza con la fabbrica dei padri: luogo di proletari forti e poco istruiti. Pian piano, però l’impiegato del call center si sta rendendo conto che il lavoro vero non c’è, (o almeno non c’è per tutti) e allora si sta adattando a trasformare la temporaneità in un nuovo lavoro. E’ forse per questo che sta iniziando a maturare sul suo terreno la ricerca di una riconquista dei diritti perduti e il cinema, come la letteratura o il teatro, si stanno organizzando per dare una mano alla lotta. E nello stesso tempo per certificarla come fenomeno storico. Il call center, rispetto ad altri lavori precari, è un luogo di maggiore aggregazione di massa ma è ancora lontano dalla fabbrica come luogo di formazione culturale. Inoltre il numero delle persone che ci lavorano è relativamente basso rispetto alla totalità dei giovani italiani. Il call center non è un motore nazionale ma solo uno dei luoghi e dei modi con cui i privati fanno affari. L’operaio potenziale italiano continua a dissolversi nell’assenza della fabbrica e si avventura in mille mestieri che lo rendono solo oltreché povero. Il protagonista italiano di Cover Boy risponde a questa descrizione. Lava i pavimenti della “Stazione Termini” fino a quando gli dicono che non c’è più lavoro. Si reca all’agenzia interinale e chiede un impiego alla cieca. Poi si lascia vincere dalla solitudine e dalla miseria. E la solitudine sociale è una delle piaghe di questa generazione. Il cinema italiano ci dice che la fabbrica (soprattutto quella piccola) è diventata il luogo di lavoro dei nuovi ultimi, degli extracomunitari. C’è una lista di film che parte dall’ormai lontano Pummarò (di Michele Placido), passa per Quando sei nato non puoi più nasconderti (di Marco Tullio Giordana), per l’importante Apnea di Roberto Dordit, e arriva fino a al recente Riparo di Marco Simon Puccioni. Non sono film che hanno la fabbrica al centro della propria riflessione ma la scopriamo piena di immigrati ogni volta che si affaccia nei film in questione. L’epica operaia, invece, viene esaltata da film come Signorina Effe, Mio Fratello è figlio unico, Guido che sfidò le br, e La Meglio Gioventù. Film che vanno indietro di trent’anni e più, ( come del resto fanno il doc. di Francesca Comencini In fabbrica e quello di Daniiele Vicari Il mio paese) a mostrare com’era il paese “una volta” e quanto era dignitoso essere operai. Questi film, spesso accessibili al pubblico ed emozionanti, possono essere letti come un monito e un’esortazione per i giovani. La celebrazione della cultura operaia rende la situazione dei moderni precari ancora più angosciante. Di fronte alla vitalità dei lavoratori descritti nei film di Ferrara, Labate, Giordana, Comencini, Vicari e Luchetti lo smarrimento dei giovani precari senza terreno politico diventa ancora più deprimente. Nel confronto tra il passato e il presente l’unica speranza sembra essere legata alle teorie espresse nel documentario di Guido Chiesa, Le pere di Adamo, secondo cui c’è un margine di imprevedibilità per tutto. Anche per questa generazione che intanto sta invecchiando senza la possibilità di lottare per abbassare il prezzo del proprio sacrificio, come hanno fatto gli operai che li hanno preceduti. Chiesa postula un affascinante paragone tra la natura imprevedibile dei movimenti e quella delle perturbazioni. Potremmo sperare che la precarietà, o la flessibilità, come la chiamano gli economisti, sia come la pioggia. Non ci resta che aprire l’ombrello nell’attesa che smetta? Nel frattempo due film hanno posto come protagonista le moderne problematiche legate all’occupazione ed entrambi hanno provocato più inquietudine che speranza. Sono Mobbing – Mi piace lavorare, di Francesca Comencini e Volevo solo dormirle addosso di Eugenio Cappuccio. Due opere entrambe nel 2004, complementari, contigue ed utili a riassumere l’alba del precariato. Il primo è un film secco ed asciutto, il secondo una commedia algida sospesa tra satira e denuncia, che odora di stereotipo in suo qualche angolo ma che, insieme a Mi piace lavorare, si impegna nella dimostrazione di un teorema angosciante: la costrizione all’abbandono del lavoro attraverso violenti abusi. Le aziende che vogliono ristrutturare adottano questi sistemi per licenziare il personale in esubero. “Devono licenziare un po’ di persone ed hanno deciso che licenziano me. Poteva capitare a chiunque altro”. Sono le parole di Anna, la protagonista ormai stremata di Mobbing, che finalmente ha capito l’origine e la causa di un accanimento tanto feroce nei suoi confronti. E’ stata selezionata nonostante una figlia piccola da mantenere in solitudine e un padre malato. Le hanno dato la responsabilità di una decisione imposta alla cieca e l’hanno minacciata di essere in una posizione per cui non può pretendere molto. La sintesi di quanto le accade è offerta dal collega cinico del protagonista di Volevo solo dormirle addosso: “E’ sempre pieno di impiegati da mandare al macero. In america è molto facile segare la gente: la si chiama, gli si danno 15 giorni di stipendio e la si manda a cagare. Qui fai lo stesso e ti ridono in faccia. Fuori non c’è mercato e nessuno molla l’azienda così. Dove lo trovi oggi un altro lavoro? E allora si può fare in due modi. La mobilità oppure, se rifiutano le due lire che l’azienda gli dà, scrivania nel sottoscala, segretarie che quando passano gli sputano, nessuno che li caga, incarichi di lavoro assurdi, tutti che li evitano. Dopo una settimana sei così bollito che accetti le due lire cantando”. Volevo solo dormirle addosso racconta il lavoro contemporaneo dalla soggettiva opposta rispetto a quella di Mobbing. Non parte dall’ottica classica della vittima ma da quella meno conosciuta del rappresentante del padrone. Eugenio Cappuccio presenta al cinema italiano un tagliatore di teste, un “segatore” di colletti, un dirigente killer a progetto e ricatto. Entrambi i film sono validi traccianti sul mondo aziendale di oggi, dominato da scrivanie eleganti, androni moquettati e logica spietata del marketing. “La società che ha rilevato questa azienda” – annuncia Mobbing - “ha una filosofia molto precisa: la flessibilità totale. La disponibilità completa dei dipendenti. Non interessano i vostri problemi personali, i carichi di famiglia, le fatiche di tutti i giorni. Flessibilità totale significa disponibilità 24 ore su 24. Hanno parlato di lavoro a chiamata, di lavoro in turni avvicendati, di trasferimenti continui. Nei due film vediamo giacche e cravatte fredde di facce qualunque paurosamente normali e subdole, quasi normalizzate nella meschinità intrinseca al mestiere. I capi veri, spesso francesi, sono lontani. Chi comanda non si sporca, passa la patata bollente all’ultimo rampantello senza scrupoli, ancora vulnerabile e scaricabile con facilità. I dirigenti parlano con parole precise, non sorridono, non stabiliscono nessun rapporto di tipo colloquiale. Frasi secche, brevi, sbrigative precise. Vengono sparati sulla folla concetti freschi e accattivanti ma dietro le quinte si preparano strategie aberranti. Il protagonista di Volevo solo dormirle addosso (un attento Giorgio Pasotti) esordisce sostenendo di stimare i suoi lavoratori perché ognuno è “un progetto per il proprio futuro”. Aggiunge che sono i complimenti a mandare avanti un lavoratore: “Un complimento genera benessere e motivazione”. Peccato che la società abbia deciso una riduzione del personale in tutta Europa per presentarsi più leggera con l’anno nuovo, e peccato che le novanta unità del gruppo vadano ridotte di venticinque elementi. I film chiariscono come spesso le vittime non conoscano il nome dei carnefici e come il concetto di padrone venga sostituito da una sorta di occhio invisibile che controlla, dispone, organizza e muove risorse a suo piacimento. Le pellicole descrivono l’orrore quotidiano che in tanti casi rende angosciosa l’esistenza del lavoratore dipendente. In Mobbing i responsabili delle risorse umane invitano il personale a “primeggiare con entusiasmo. Il lavoro” - dicono – “non si difende più come un regalo che qualcuno ci ha fatto a divinis, ma conquistando altro lavoro e nuove fette di mercato”. Le macchine da presa dei due registi entrano nei luoghi di produzione asettici e silenziosamente inumani ma descrivono anche le conseguenze delle ore di lavoro e la fatica morale che si riversano nella vita privata. Anna (Nicoletta Braschi) si addormenta la sera quando la figliola potrebbe regalarle un momento di tenerissima poesia. E’ accusata di essere sempre stanca a causa del lavoro e non riuscirà a portare sua figlia al saggio di fine anno. Fa i salti mortali per una pizza. Sceglie sempre la più economica. Sta attenta a tutto, non si permette niente. Per non essere tagliata fuori si costringe ad inventare stratagemmi quasi masochistici. Lavora di più e cerca di non commettere l’errore più minimo. In questo modo amplifica ogni frustrazione e rischia di perdere il contatto con la realtà. Per lavoro non si riesce a dare il proprio latte al figlio: una sua collega se lo toglie dal seno per non perdere una riunione. La discesa agli inferi di Anna è raccontata per accumulo, attraverso un’esponenziale perdita di dignità e speranze, tramite un continuo, spossante, cambiamento di mansioni e piccole meschinità che minano la sua autostima in nome della competitività. Volevo Solo dormirle addosso, invece, focalizza l’attenzione sull’identificazione dell’individuo con il proprio lavoro. L’essere ciò che si fa che può portare ad una vera e propria confusione della personalità. Il lavoro invade la vita fino a ridurre l’individuo a numero senza valore. Il finale di entrambi i film si lascia andare a quel lieto fine che rientra nell’abitudine post-neorealistica di raccontare anche le situazioni problematiche. Il finale ammortizza il colpo, offre un digestivo prima dell’uscita dal film. Mobbing, tuttavia, rispetto al film di Cappuccio, mantiene un’ asciuttezza ed una vicinanza al documentario che l’accompagna per la sua quasi totalità. Il film è quello che conferisce più dignità al sindacato. “Parliamoci chiaramente” – viene spiegato ad Anna e le colleghe - “il settore amministrativo è composto quasi interamente da donne. Questo significa che il loro obiettivo è di porvi davanti a una scelta tra il lavoro e il mantenimento degli affetti, delle relazioni familiari, dei rapporti costruiti. “Come possiamo difenderci?” – ribatte una lavoratrice - “Non si deve scegliere! L’errore è proprio questo. Non è giusto porre le donne di fronte a questa scelta. Le donne devono poter continuare a lavorare e a mantenere le proprie relazioni. E’ normale che ognuno di voi sarà tentato di trovare una soluzione individuale. Ma guardate che la soluzione individuale è destinata ad essere sconfitta. Le persone sono delle cose fragili, si rompono facilmente. Le vessazioni che vi possono fare individualmente possono essere violentissime. E la violenza non è soltanto fisica. Basta lasciarvi senza fare nulla. Vi possono strappare la dignità”. Il sindacato di Mobbing è di fatto l’unico alleato della solitudine di Anna. E’ rappresentato (anche perché la Cgil ha sostenuto e favorito il progetto) con una serietà che non appartiene agli altri film, soprattutto i più recenti, sul tema del lavoro. Nel film di Cappuccio il sindacato compare fugacemente e non ha niente in contrario alle dimissioni incentivate, “purché contengano il consenso e la soddisfazione del lavoratore. Lei chiama a colloquio gente di trentacinque, quaranta anni e gli offre due lire. Usa la mobilità come un’arma” - dice Ninni Bruschetta a Giorgio Pasotti, che lo liquida con una frase finta, fatta ed emblematica - “Siamo tutti precari oggi, tutti importanti ma nessuno necessario”. Dopo questa ridicola sentenza il sindacato si ritira dal film e viene descritto piuttosto alla deriva nel film di Paolo Virzì: Mastandrea è un isolato mezzo deriso che si abbandona alle mediocrità da italietta e a qualche nostalgia per un tempo andato. Rievoca velleitariamente una sinistra idealizzata e perduta che sprofonda nella risposta della sua interlocutrice. Il sindacalista tenta di sensibilizzare la giovane: "Mio padre era verniciatore alla Fiat. Quando c’erano le manifestazioni ci portavano anche me e mi piaceva un sacco, era come una festa. Vedessi come erano belli, forti, allegri, con le tute blu, coi cartelli, gli striscioni. Lì in mezzo anche l’ultimo arrivato si sentiva invincibile. Se toccavano uno toccavano tutti”. Il suo piccolo monologo è l’ennesima spallata al passato e la risposta della ragazza (una battuta di sicuro impatto) è un’ esagerazione realistica sul presente: "Tu sei quello che dà i dépliant pubblicitari, però de politica". L’ irruzione di Valerio Mastandrea nel call center è tanto rumorosa quanto inutile. Il servizio del tg3 alza un po’ di polvere, lancia qualche accusa ma la difesa dell’azienda è facile e tutto riprende a scorrere nella sua follia. Il documentario Parole Sante spiega che “Atesia” avrebbe dovuto pagare gli arretrati per circa 300 milioni di euro ma per un accordo con i sindacati, non voluto dai lavoratori, è stato deciso una sorta di condono (grazie all’articolo 178 della Finanziaria 2006). L’azienda non ha pagato una multa né i diritti pregressi. I riassunti hanno firmato per lo stesso part-time e lo stipendio è rimasto di 550 euro al mese. Poco tempo dopo “Atesia” ha ricominciato ad assumere a progetto, portando un altro esempio di impotenza delle istituzioni di fronte a un mercato del lavoro che sembra diventato intoccabile. Le istituzione sindacali si muovono troppo lentamente rispetto a un mercato del lavoro in repentina evoluzione e tanti lavoratori continuano a non sapere cosa sia una tredicesima, “la malattia”, “la maternità” o “la liquidazione”. Nella vicenda di “Atesia” gli operatori si sono presi carico direttamente della condizione che stavano vivendo e durante la conferenza stampa di Parole Sante, Celestini disse di essere più spaventato dall’immobilismo e dall’impotenza di governo e sindacati che dalle leggi Biagi e Treu. I film italiani sul call center e il precariato mostrano la solitudine dei lavoratori e il loro spaesamento; dicono di una politica e di un sindacato che parlano lingue diverse da quella dei lavoratori. Una manciata di pellicole dimostra che il cinema italiano più scevro da compromessi con le istituzioni (e con le grandi produzioni) sta provando a correre in soccorso di una generazione in difficoltà. Sta contribuendo ad una restituzione più realistica di giovani che hanno voglia di raccontarsi e di farsi raccontare, per capire, loro stessi, quanto la precarietà economica incida sulla loro voglia di stare insieme, di costruire futuro e quanto, in alcuni casi, sia anche l’alibi per non caricarsi di responsabilità scomode da sostenere. Non può essere un caso, però, che anche i film che cercano il consenso di un pubblico di massa abbiano inserito al loro interno tematiche legate al lavoro. Nel film di Gianni Zanasi, ad esempio, il molto apprezzato Non pensarci, sono presenti considerazioni generazionali sul lavoro. Questo problema è oggi uno dei più sentiti dalla popolazione assieme a quello della sicurezza e dell’immigrazione. E’ una conseguenza naturale che il cinema se ne stia accorgendo e che cerchi ragioni, spiegazioni e di esorcizzare il problema con ironia, satira, stereotipi o denuncia. Poco è stato fatto finora e non esiste il film che attraverso il problema del lavoro sia riuscito a risolvere anche quello, ormai storico e sbandierato, di un cinema italiano senza capolavori. Ma alcuni esempi recenti ci fanno sperare nella possibilità di una crescente produzione di film sul lavoro. Per gli argomenti scomodi il documentario ha sempre una corsia preferenziale: costa meno e il suo pubblico è quello che meglio digerisce le brutture del nostro sistema. Speriamo che non tocchi solo al cinema fatto di realtà filmata (ed interpretata) il compito di vigilare sulle ingiustizie del lavoro. La situazione esterna, sociale, economica e politica, offre tutte le garanzie per una profonda ispirazione e per una saggia riflessione adatta a tutte le forme espressive. E poi si sente dire in giro che questa società offre poco…

NELLA STESSA RUBRICA
-
Intervista al direttore della fotografia FEDERICO ANNICCHIARICO
-
OSCAR 2021: vincitori e vinti
-
Un artigiano della luce - Intervista a Daniele Ciprì
-
Ri-tratto Rosso. Una mostra felliniana per eccellenza.
-
L’INCREDIBILE STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE: INTERVISTA AL DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA VALERIO AZZALI
TUTTI GLI ARTICOLI
