LE REGOLE DELL’ATTRAZIONE

Parafrasando i Led Zeppelin, negli ultimi anni veniva ogni tanto da chiedersi: “Whatever happened to Roger Avary?” Si sentiva, forte, la mancanza del genio sperimentale e autenticamente disperato di Killing Zoe, del tocco surreale e poetico di Mr. Stitch. Ci si chiedeva perché invece di capitalizzare l’Oscar condiviso con Tarantino per la sceneggiatura di Pulp Fiction il biondo canadese fosse svanito nel nulla. In realtà Avary (come si evince dal suo spassosissimo sito, di cui si consiglia il delirante blog giornaliero), dopo l’ambigua storia di recriminazioni e furti creativi col vecchio compagno di videonoleggio era impegnato a sfornare sceneggiature su sceneggiature per progetti destinati invariabilmente a scontrarsi con le esigenze banalizzanti degli studi: un Beowulf scritto con Neil Gaiman, un Sandman sempre da Gaiman, un Ranxerox, script per David Fincher e Mel Gibson, Don Coscarelli e John Woo. Anche una lungamente accarezzata biografia sui rapporti tra Salvador Dalí e Gala. Insomma, mentre Tarantino imponeva il proprio mito per poi astutamente ritirarsi e riemergere con la perfezione luminosa di Kill Bill (oltre a scegliere come nuovo compagno d’avventure - ahilui - il dubbio talento di Robert Rodriguez), Avary si rivelava come l’ultimo degli irregolari, dei maverick incapaci di venire a patti con l’industria, degno discendente dei Peckinpah e Cimino. Fino al 2002, quando Le regole dell’attrazione viene alla luce. Basta l’inizio: i Tomandandy che massacrano Bach come Walter Carlos Beethoven in Arancia meccanica, il primo primo piano di Shannyn Sossamon e la sua voce over che dolcemente ci costringe a scoprire come Lauren ha perso la sua verginità - ed è come un treno che travolge spuntando d’improvviso dalle tenebre. Basta quest’intro folgorante per capire che Avary è ancora il cineasta più interessante emerso dalla Hollywood degli ultimi dieci anni (come intuì già anni fa Giona A. Nazzaro). E basta guardare con attenzione per evitare la trappola in cui tanti (troppi) sono caduti: capire cioè che la patina di “sex and the college” fornita dal romanzo di Ellis non ha niente a che fare con qualsiasi Trainspotting o, un’altra volta, Tarantino (del resto Avary gioca d’anticipo con il riflesso condizionato dei critici: il film tarantiniano citato dallo studente di cinema scemo è proprio Killing Zoe). Nella voce di Lauren si aprono abissi di dolore, e nessuna tentazione exploitation su una gioventù viziata e strafatta. Nella scelta di principiare dalla fine dei giochi precipita dentro l’immagine un senso di perdita irrimediabile, di istantanea nostalgia che fa male al cuore. Avary traveste dietro le fattezze da commedia cinica e gli squarci di horror dei sentimenti, dietro sbotti di vomito e sanguinamenti da cocaina, un melodramma struggente e supremamente elegiaco sulla ricerca dell’amore. Certo, ci sono gli eccessi espressionisti (la mimica tenuta costantemente al limite di Van Der Beek) e le isole di puro grottesco (gli amici checche e la visita alla madre di Paul, o le scene con Sean nella casa degli spacciatori). Ma non si intravede proprio nessun moralismo, nessun morboso compiacimento. Solo una dolente e polifonica partecipazione per ciascuna delle dandystiche anime vaganti in questo microcosmo di stilizzata estenuatezza che è il Camden College, tratteggiato con occhio unico, tra iperrealismo pop e Aubrey Beardsley in acido. Con la fenomenologia della decadenza del Renoir di La regola del gioco e una sentenziosità morale prettamente rohmeriana. Un mondo dove Conrad Veidt occhieggia nelle scenografie del Caligari da televisori che nessuno guarda; dove l’esteriorità nichilista si converte in autentico respiro di tragedia esistenziale. “Nessuno conosce nessuno, mai.” Ma soprattutto ciò che rende Le regole dell’attrazione il capolavoro che è, è l’impetuosa rabbia visionaria con cui Avary aggredisce la materia: split screen e immagini “à rebours”, utilizzo della musica (dai Cure a Donovan, dai PIL a George Michael) di rara genialità e invenzioni abbaglianti come il fiocco di neve che si trasforma in lacrima artificiale. Gli esplosivi quattro minuti in digitale del viaggio di Victor in Europa (da cui uscirà lo spin off Glitterati, rampa di lancio per la prossima trasposizione da Ellis, Glamorama). E dopo la scena di sesso più bella del cinema contemporaneo (Eric Stolz e Julie Delpy guatati da Max Schreck-Nosferatu in Killing Zoe), Avary propone una scena di suicidio che fa gelare il sangue nelle vene: “without you” non può esservi che la morte. Werther incontra Harry Nilsson nei cieli dell’assoluto romantico.
[marzo 2004]
Cast & credits:
Regia: Roger Avary; sceneggiatura: Roger Avary dal romanzo di Bret Easton Ellis; fotografia: Robert Brinkmann; montaggio: Sharon Rutter; musica: Tomandandy; scenografia: Sharon Seymour; costumi: Louise Frogley; interpreti: James Van Der Beek, Ian Somerhalder, Shannyn Sossamon, Jessica Biel, Kip Pardue, Thomas Ian Nicholas, Kate Bosworth, Fred Savage, Eric Stoltz, Faye Dunaway; produzione: Greg Shapiro per Kingsgate; origine: USA 2002; distribuzione: Eagle Pictures; durata: 110’.
