Le valigie di Tulse Luper: la storia di Moab

Tulse Luper suitcases 1. The moab stories è la prima parte (presentata a Cannes 2003) di un progetto multimediale faraonico e megalomane di Greenaway che prevede altre due pellicole, una serie tv, cd rom, dvd e libri. Il cd room permetterà al visore di esaminare il contenuto delle 92 suitcases che contengono oggetti che Tulse, il protagonista, ha archiviato con maniacale ossessione: oro, rana, strumenti musicali, pattini, l’anima, biancheria intima, menu del ristorante cinese, pornografia, carbone, artigli di granchio etc. Tulse Luper suitcases. The Moab stories è un film barocco, nel senso di ridondante e malato, ma soprattutto disutile e delirante. Non si capisce bene che cosa Greenaway abbia voluto narrare: (forse) le vicende di un ragazzo, Tulse, che sembra condannato fin dall’infanzia ad ogni sorta di tribolazioni e in primis alla prigionia. Tutti, secondo Greenaway, siamo prigionieri di qualcosa: amore, sesso, successo, soldi, religione, ect. E dobbiamo riconoscere che in effetti la sensazione di prigionia è concretamente trasmessa allo spettatore. Tulse è uno scrittore archeologo inventore che viaggia nel mondo, dal deserto dell’Utah al Galles a Torino, alla ricerca di popoli e culture dimenticate. La storia va dal 1928 al crollo del muro di Berlino del 1989. Ogni tappa del viaggio viene ricostruita dai differenti contenuti del suo bagaglio: le 92 valigie che vengono ritrovate in ogni luogo da lui visitato. La lunga via crucis del protagonista è scandita in episodi, ad ogni episodio corrisponde una valigia. Le valigie assumono un significato simbolico: in esse il giovane ripone tutti gli oggetti del passato archiviati con cura certosina e maniacale, materializzazione concreta dei propri ricordi. Il film è girato in digitale e usa questo strumento con diversi fini: per rappresentare i personaggi da diverse prospettive, studiarne e ripeterne all’infinito i movimenti e le frasi, cambiare la colorazione degli ambienti e le luci, ottenendo effetti scadenti e noiosi. L’opera concepita come film sperimentale ha questa peculiarità: non si può definire “film”, giacché la sceneggiatura non segue un disegno o una trama definita ma è un’accozzaglia di piccoli episodi onirici, spezzoni di documenti storici, pastiche di brani assemblati secondo l’estro estetico strabordante e anfetaminico del regista. Mancando una sceneggiatura mancano personaggi ben delineati: ergo diventa impossibile giudicare la recitazione degli attori, che divengono manichini alla Craig. Se vogliamo considerare l’esperimento di Greenaway un video d’arte, allora risulta ancor meno interessante, perché in questo senso la ricerca espressiva nell’ambito del video d’arte e videoclip, dagli anni Ottanta in poi, ha prodotto opere molto più significative di questa. Non mancano ovviamente, data anche la lunghezza dell’opera, momenti felici in cui riconosciamo il grande esteta di film come Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, ma in generale predomina la confusione a livello visivo e prospettico, e il montaggio nevrotico e la musica ancor più ossessiva non aiutano. Un incubo. Più che autoreferenziale, autistico.
(The Tulse Luper Suitcases: The Moab Stories) regia: Peter Greenaway sceneggiatura: Peter Greenaway fotografia: Reinier van Brummelen musica: Borut Krzisnik interpreti: JJ Field, Caroline Dhavernas, Remo Girone, Valentina Cervi, Isabella Rossellini, Tanya Moodie, Nigel Terry, Steven Mackintosh, Jordi Mollà, Kevin Tighe, Tom Bower produzione: Kees Kasander, ABS production, Delux, Focusfilm, Gam Films origine: Olanda, Inghilterra, Italia, Russia, Ungheria, Spagna 2003 durata: 127’ distribuzione: Istituto Luce web info: www.luce.it
[gennaio 2004]
