Letters to Juliet

Giulietta Capuleti da Verona, grazie alla provvida intercessione di William Shakespeare, oltre che un’opera d’arte è divenuta una Madonna Laica se non Pagana, una statua cui portare in pegno le proprie lacrime di amori perduti e le lettere indirizzate alla speranza di un aiuto, queste ultime incastonate nel muro del pianto che riposa lungo il cortile sul quale troneggia quel balcone che è divenuto emblema dei discorsi dell’amore sull’Amore.
Sono questi principalmente i profili che si stagliano lungo una pellicola che un vorrebbe portare in scena un viaggio, fisicamente e mentalmente addentrandosi nel sentimento, attraverso quella cartolina in formato cinematografico che è l’Italia vista da Hollywood, un paesaggio quasi più idealistico che ideale, cresciuto in secoli di turismo culturale soprattutto anglosassone. In particolare è quel momento iniziale l’unico a segnare positivamente il film, poiché è capace di restituire un senso di un kitsch estremo corroborato, però, da una certa ironia e da una volontà di spingersi senza timori né vergogne in una visione che andrà poi quasi a cozzare contro il resto di un film che, mano a mano che si avvicinerà alla propria meta, andrà a spegnersi sempre più velocemente in una stanchezza compositiva del tutto fastidiosa.
Perché il tragitto intrapreso dovrebbe restituire un percorso di formazione, una crescita nella comprensione del sentire se stessi nel sentimento, ove Letters to Juliet mette in scena le vicende della giovane giornalista newyorkese Sophie (Amanda Seyfried) che approda a Verona per lavoro assieme al fidanzato Victor (Gael García Bernal), uno chef che, di suo, potrà rifornire il proprio locale con leccornie di primo ordine, oltre che rubare i segreti dell’arte culinaria della penisola. Un po’ abbandonata in favore di quel sentire anch’esso corporeo e mentale che è il cibo, Sophie si prodigherà per aiutare l’anziana inglese Claire (Vanessa Redgrave) a ritrovare il suo primo amore che l’aveva spinta a scrivere una lettera a Giulietta, cinquant’anni prima, conducendo le due donne (oltre che il nipote della donna, il riluttante Charlie), su una strada che le porterà fino a Siena e nella splendida campagna toscana.
Malgrado la presenza dei quattro elementi naturali sui quali si fonda l’universo (’Mangiare bere uomo donna’) e nonostante un cast di protagonisti che non delude più di tanto, l’aspetto e la profonda essenza da retriva commedia romantica senza il benché minimo coraggio rendono Letters to Juliet capace di qualsivoglia ignominia estetica, pagando le colpe di un regista e dei due sceneggiatori (tra cui uno, l’Jose Rivera collaboratore di Walter Salles per I diari della motocicletta e per il prossimo On the Road, è esperto di viaggi sullo schermo) che hanno preferito assentarsi, mentre il compositore delle musiche e il direttore della fotografia hanno scelto di lavorare aderendo a svariate didascaliche banalità. La stessa forma, perciò, va contro la ricerca di libertà che il contenuto sembrerebbe propugnare, facendo in modo che il film si annulli da solo proprio quando più si impegna nel decantare proclami per un’esistenza che segua maggiormente le regole dettate dai propri bisogni interiori, piuttosto che quelle stabilite dall’esterno.
(id.); Regia: Gary Winick; sceneggiatura: Tim Sullivan e Jose Rivera, liberamente tratta dal libro Lettere a Giulietta di Lise e Ceil Friedman; fotografia: Marco Pontecorvo; montaggio: Bill Pankow; musica: Andrea Guerra; interpreti: Amanda Seyfried (Sophie), Vanessa Redgrave (Claire), Christopher Egan (Charlie), Gael García Bernal (Victor), Franco Nero (Lorenzo Bartolini), Luisa Ranieri (Isabella), Marina Massironi (Francesca), Milena Vukotic (Maria), Luisa De Santis (Angelina); produzione: Applehead Pictures; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA, 2010; durata: 105’; web info: sito ufficiale.
