LEZIONI D’AMORE
Crediamo senza remore al Professor Kepesh, quando dice che Consuela Castillo “sa di essere bella ma non sa cosa fare della sua bellezza”: perché Penelope Cruz dà corpo e gesti ad una creatura meravigliosa, dallo sguardo conturbante e dai seni goyani, che sembra aver timore persino della sua stessa ombra. Funziona bene, pur essendo un clichè, il contrasto tra il cinismo di un intellettuale navigato, per il quale la cultura è l’arma di seduzione più affilata, e l’apparente pudore della giovane studentessa, impermeabile alla corte dei coetanei e sensibile al fascino, un po’ paterno e rassicurante, dell’uomo maturo. Isabel Coixet, dopo Demasiado Viejo para morir joven, Le cose che non ti ho mai detto e La mia vita senza di me, è in grado di calamitarci nell’atmosfera pulsionale che travolge David e Consuela; è brava nel toccare i loro corpi mentre consumano passione; nell’indugiare sui loro volti per carpirne i più impercettibili moti dell’animo; convince anche quando decide di collocarli in poche, appropriate e funzionali, location, che suggeriscono un’idea d’intimità che fa pensare ad un dramma (sentimentale) da camera.
E’ meno brava quando ci racconta (ma saremmo tentati di dire, semplicemente, ammicca) il rapporto tra un padre irresponsabile, egoista e libertino, ed un figlio – inspiegabilmente – odiato, di cui conosciamo solo la professione; ha ancora da imparare, figurando lei stessa come primo operatore, sul piano tecnico (non tutte le inquadrature valgono la bellezza della fotografia in alcuni punti), e forse poteva calcare di più la mano, in fase di sceneggiatura, sulla componente ambigua, accattivante e morbosa, dell’ossessione di Kepesh.
Dopo l’ultimo fotogramma, che conclude la quarta fatica della regista catalana, si rimane un po’ perplessi e inappagati: non certo a causa dell’avarizia erotica delle immagini, che si appellano ad una generosa Penelope Cruz, ammirata “desnuda” o “vestida”, come la maya del grande pittore iberico. E’colpa dell’Animale morente di Philip Roth, da cui la Coixet e Nicholas Meyer, non riescono a prendere le dovute distanze, e a tradurre in discorso esemplarmente filmico il romanzo d’ispirazione, se ci sembra di assistere ad una trasposizione troppo letterale, e in fondo (ma non troppo) incompiuta: ed è un paradosso, se si considerano i contenuti e gli intenti.
A funzionare ad orologeria, in un meccanismo imperfetto, sono le interpretazioni dei due protagonisti: viscerali, intense, drammatiche, con un Ben Kingsley in stato di grazia nell’ indossare gli abiti non proprio lindi di un immaturo edonista. Buono anche Hooper, per l’equilibrio della performance, nel ruolo, secondario, del premio Pulitzer George O’Hearn, che così commenta l’infatuazione dell’amico-collega:
"Le donne belle sono invisibili perché nessuno riesce a vedere chi si nasconde dietro all’aspetto fisico. Rimaniamo talmente affascinati dall’esterno che non riusciamo mai a penetrare più a fondo."
Non possiamo dire lo stesso di questo film.
(Elegy) Regia: Isabel Coixet; sceneggiatura: Nicholas Meyer; Interpreti: Penélope Cruz (Consuela Castillo), Ben Kingsley (David Kepesh), Dennis Hopper (George O’Hearn), Peter Sarsgaard (Kenneth Kepesh), Patricia Clarkson (Carolyn); fotografia: Jean-Marie Larrieu; montaggio: Amy E. Duddleston; produzione: Lakeshore Entertainment; distribuzione: 01 distribution; origine: USA 2008; durata: 108’.