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LIX edizione degli “Internationale Kurzfilmtage Oberhausen”

Pubblicato il 9 maggio 2013 da Marco Grosoli


LIX edizione degli “Internationale Kurzfilmtage Oberhausen”

Le cinquantanovesime Giornate Internazionali del Cortometraggio di Oberhausen (02 - 07 Maggio 2013) - tra le più prestigiose kermesse al mondo sulla forma breve - , sono state quelle di un fisiologico “tirare il fiato”. L’anno scorso, infatti, il cinquantenario del celebre e omonimo Manifesto, atto di nascita del Nuovo Cinema Tedesco, imponeva un’edizione assai speciale, e così fu (boom di presenze incluso), grazie alla monumentale retrospettiva in merito. Il ritorno a quote più normali, in termini di pubblico e di offerta, traspare ora innanzitutto dalla parte monografica: Flatness. Trattasi di 8 programmi dedicati al cinema “dopo internet”, dalle ambizioni evidentemente ridotte rispetto al grande omaggio del 2012: un’iniziativa compressa dai limiti che essa stessa si è data, quelli di una ricognizione sulle potenzialità del contagio ipermediale che non può giovarsi dell’insostituibile vantaggio e attendibilità portati necessariamente dalla distanza storica. Distanza che qui, troppo vicini al presente, non può esserci.
In compenso, i profili dedicati ai singoli autori sono stati tra i migliori degli ultimi anni del festival. Punta di diamante: Ho Tzu Nyen. Nei suoi lavori, un nitore formale che viene dritto dall’arte contemporanea (Earth, 2009) incontra felici tangenze di altro tipo – per esempio didattiche (4x4 Episodes of Singapore Art (2005), straordinaria miniserie televisiva di documentari ben consapevole che la divulgazione della storia dell’arte deve essere essa stessa una forma d’arte) o politiche (The Bohemian Rhapsody Project (2006), geniale riutilizzo del trovarobato tardo-operistico della quasi omonima hit dei Queen per raccontare un altro cascame di cui rimangono solo anacronistiche e melodrammatiche rovine: il sistema giuridico di Singapore, pena capitale in primis).
Di uguale prorompenza politica una strana scuola croata che si ritagliò un’autonomia nel periodo tra le “aperture” all’esterno e la stretta nazionalistica: a venire riproposti qui sono stati una quindicina (tra i ’60 e i ’70) di documentari brevi di Petar Krelja, Krsto Papić (il migliore) e Zoran Tadić, spesso miracolosi punti di equilibrio tra un’altissima pulizia stilistica e l’irrompere di scomodi brandelli di realtà “non ufficiale” (come l’emigrazione in Germania o lo stato preoccupante dell’entroterra).
Il profilo più atteso era forse quello di Luther Price, leggenda vivente dell’underground statunitense che negli anni ha attraversato molti pseudonimi e ancor più tecniche sperimentali: siano esse found footage montato su pattern ripetitivi, pellicole incollate l’una sopra l’altra o ritratti “garreliani” di persone care, dalle sue opere spesso ricche di torbide suggestioni autobiografiche traspare un’ossessione per la materialità che mai come nel suo caso rima con mortalità. Un opportuno alleggerimento ce lo offre Helga Fanderl, austriaca “oltranzista lumieriana”: ognuna delle sue centinaia di bobine super8 non montate è una scintilla che scopre nella realtà empirica quotidiana paradigmi visuali ravvivati (o inventati?) dal mobile sguardo del leggero apparecchio di ripresa.
Unica delusione, i due programmi riservati a Laure Prouvost, filmmaker dalle mal riposte ambizioni di travalicare confini come quello tra l’autore e il pubblico, o tra il linguaggio e i sensi. Non smentisce questo sospetto, purtroppo, il suo Swallow, con le sue pesanti velleità di gender, all’interno di un Concorso Internazionale nel quale molte delle offerte migliori erano a firma femminile. A colpire è soprattutto Pendant la nuit di Noha El Madawi, ispiratissima e stralunata reverie egiziana, che parte in uno studio di manicure, procede contemplando per minuti una sposa che cammina di notte sull’autostrada sotto le note della Sagra della primavera, e finisce a bolle di sapone a piazza Tahrir. Segue a ruota Tuppern di Vanessa Gräfinholt, in superficie un incrocio tra Ulrich Seidl e la soap opera (!), in profondità un solidissimo saggio di regia pura, di controllo blindato e invisibile sulla propria materia. Si segnalano poi, su una nota più politica, Filipa César e Larissa Sansour: la prima col videosaggio Cacheu, riflessione postcoloniale (sullo schiavismo portoghese in Guinea, e i suoi lasciti) che sale sulle spalle di Marker e Resnais e lavora utilmente sulla labilitá del punto di vista; la seconda (Nation Estate) usa la fantascienza per imbastire un perfetto pamphlet utopico/distopico in cui la migliore soluzione della questione palestinese coincide con la peggiore.
Anno dopo anno, la selezione inevitabilmente si stabilizza su generi più o meno consolidati: il ghiribizzo puramente plastico (il migliore? Montaña en sombra di Luis Patiño, sinfonia per neve, oscurità e sciatori in campo lunghissimo), l’animazione (Choir Tour di Edmunds Janson), la “costola” dell’arte contemporanea (Journal di Sirah Folghel Brutmann e Eitan Efrat)... In netto ribasso qualitativo la rielaborazione poetica a lato di una serie di fotografie, a cui pure è andato il Gran Premio, con il confuso e autoindulgente Kirik Beyaz Laleler di Aykan Safoglu. Non salva le sorti del genere nemmeno Ben Rivers (Phantoms of a Libertine), una delle non poche “star” del circuito sperimentale traghettate a Oberhausen da altri festival (con David Gatten, Amit Dutta, Mika Taanila, la sublime Athina Rachel Tsangari, gli habitué John Smith e Seoung Cho).
E i giovani? Se pensiamo a quegli appassionanti studi su spazio, psiche e entropia che sono Rogalik (Pawel Ziemilski) e Suchy Pion (Wojciech Bakowski), o al film vincitore del Primo Premio, Ziegenort (Tomasz Popakul), animazione che sa trarre egregiamente profitto dalla grande tradizione est-europea, verrebbe da dire che le nuove leve polacche sono assai in salute. Una grande rassegna come quella di Oberhausen, non c’é dubbio, è fatta anche per raccogliere indicazioni del genere, e sbilanciarsi in avanti.


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