Lovelace

E’ difficile trovare, nella storia contemporanea, un periodo più complesso e ricco di fermenti - sociali, culturali e politici - come quello dei “favolosi” Anni Settanta: in quel crogiolo di spinte innovative ed aneliti libertari, l’insopprimibile esigenza di sovvertire gli schemi tradizionali portò a grandi trasformazioni in tutti i campi, dall’arte alla comunicazione, dalla musica ai costumi sessuali. E’ proprio in quest’ultimo ambito che, a suo modo, Linda Lovelace rappresentò una sorta di simbolo controverso, la cui effettiva consistenza andò tuttavia chiarendosi solo qualche tempo dopo. Col film Lovelace, lo sceneggiatore Andy Bellin ed i due registi, Rob Epstein e Jeffrey Friedman, hanno voluto ripercorrere criticamente la parabola esistenziale di colei che divenne la prima star del cinema per adulti: dalle circostanze che la portarono a trasformarsi in inconsapevole icona di una – pur se estremizzata – liberazione sessuale femminile, fino al suo risveglio morale ed alla sua decisione di diventare paladina della lotta contro la violenza sulle donne e gli abusi domestici. La modalità prescelta per raccontare la vita di Linda presenta peraltro caratteri di originalità, poiché fornisce dapprima una raffigurazione patinata e leggera degli eventi e, successivamente, offre una sorta di “dietro le quinte” di quegli stessi eventi, svelando tutto il marcio che si cela dietro una luccicante apparenza. Una scelta certamente interessante che determina, tuttavia, una disomogeneità narrativa un po’ stridente, un certo grado di confusione che non aiuta ad entrare pienamente in sintonia né col personaggio né col film.
Linda Susan Boreman nasce a New York nel gennaio del 1949, in una famiglia di rigido stampo cattolico che insegue valori ispirati ad un perbenismo bigotto; timida e repressa, Linda trova stimoli e vitalità nella sua amica del cuore Patsy, ragazza trasgressiva ed esuberante che non ha problemi ad esprimere la sua disinvoltura in ogni situazione. La felicità sembra poi arrivare dall’incontro con Chuck Traynor, premuroso e gentile, che sa appagare la passionalità di Linda e sembra assecondarne tutte le pulsioni; Chuck, tuttavia, è una persona gretta e violenta, che ben presto la spinge verso il mondo della pornografia, realizzando il primo film a luci rosse distribuito nelle sale dei normali circuiti. Arriva il successo, la fama per Linda – ribattezzata Linda Lovelace - ma si accentua anche la crudeltà di Chuck che la tratta come una schiava e ne spegne ogni sogno di vita; solo dopo qualche anno, Linda troverà il coraggio di denunciare gli abusi subiti, diventando un simbolo del femminismo.
Al secondo lungometraggio – dopo Urlo del 2010, sul processo per oscenità contro Allen Ginsberg – il duo Epstein-Friedman sfrutta anche in Lovelace la pregressa esperienza accumulata con documentari ispirati a temi di libertà ed emancipazione sessuale: tra questi Lo schermo velato (1995), in cui vengono analizzati gli stereotipi con cui il cinema americano affronta l’omosessualità, e The Times of Harvey Milk (Oscar nel 1985 per Robert Epstein), sulla vita del famoso politico che per primo si dichiarò pubblicamente gay. In effetti, anche il film sulla prima pornostar della storia del cinema sembra costruito quasi con una logica documentaristica, per scavare in profondità su tutte le ambiguità e le prevaricazioni celate dietro un personaggio che sembrava un vero emblema di liberazione sessuale ma che, in realtà, era solo una vittima dello sfruttamento mediatico e della violenza domestica. La prima parte della pellicola viene quindi dedicata ad una rappresentazione di ciò che “sembrava” accadere, una sorta di visione edulcorata dei fatti, filtrata attraverso gli occhi di una Linda che cercava disperatamente di non vedere l’amara realtà; la seconda parte, invece, tratteggia il vero dramma sottostante, tutte le tensioni e la sofferenza che le scene viste in precedenza omettevano di rivelare. Il problema è che, dal punto di vista narrativo, il contrasto tra le due parti è piuttosto forte ed il frequente ricorso a flash-back o sbalzi temporali spezza troppo il ritmo del racconto, creando difficoltà nello spettatore ad assorbire i contenuti del film; anche la figura della protagonista, poi, finisce per suscitare poca empatia nel pubblico, poiché la sua evoluzione caratteriale non è curata e graduale e, in vari momenti, i suoi atteggiamenti si modificano senza sufficienti spiegazioni.
Sotto l’aspetto tecnico, Lovelace è un film ben messo in scena e ben recitato, che riesce a ricreare con buona efficacia l’atmosfera eccitante degli Anni Settanta, anche in virtù di una scenografia molto attenta ai dettagli e ad una fotografia, piuttosto satura ed un po’ sgranata, che riporta alle pellicole dell’epoca. Resta peraltro la sensazione di un’occasione mancata poiché, forse, una differente struttura narrativa avrebbe consentito un maggior coinvolgimento emotivo del pubblico, creando quel pathos drammatico che l’impronta documentaristica del film tende un po’ troppo ad annacquare.
(Lovelace) Regia: Rob Epstein, Jeffrey Friedman; sceneggiatura: Andy Bellin; fotografia: Eric Alan Edwards; montaggio: Robert Dalva, Matt Landon; musica: Stephen Trask; scenografia: William Arnold; interpreti: Amanda Seyfried, Peter Sarsgaard, James Franco, Robert Patrick, Sharon Stone; produzione: Millennium Films, Eclectic Pictures, Untitled Entertainment, Animus Films, Telling Pictures; distribuzione: Barter Films; origine: Usa; durata: 93’.
