Mank (Perchè No)
CITIZEN MANK
“ Mank è il nuovo film di David Fincher che racconta il periodo in cui Herman J. Mankiewicz, conosciuto da tutti come Mank, scrisse la sceneggiatura (poi firmata insieme ad Orson Welles) del film Quarto potere . Mank prende ispirazione da personaggi, fatti e incontri reali; romanzandone alcuni, riproducendone fedelmente altri” (dal trailer del film visibile da venerdì 4 dicembre su Netflix).
D’acchito, fa venire immediatamente l’acquolina in bocca a qualunque buon cinefilo sentir parlare di un film che racconta la genesi di uno dei massimi capolavori della Storia del cinema e cioè di Citizen Kane (1941, Quarto potere in italiano), la folgorante opera di debutto di Orson Welles; nonché, associato ad esso, il nome di David Fincher, uno dei più stimati director del cinema americano contemporaneo, l’autore di opere, tra le altre, come Seven (1995), Fight Club (1999) oppure The Social Network (2010). Poi, però, visto il risultato in parte deludente, allo stesso cinefilo, credo, potrebbero venire dei seri dubbi e cercare di esprimerli come qui proviamo a fare.
Ma andiamo per ordine. Ovviamente i film sulla fabbrica dei sogni hollywoodiana nel suo periodo classico non sono certo una novità anzi costituiscono un mini-genere a partire per esempio – sono i primi tre casi che mi vengono immediatamente in mente – già da Show People del 1928 con Marion Davies e William Haines per la regia di King Vidor, passando per The Bad and the Beautiful (Il bruto e la bella, 1952) diretto da Vincente Minnelli con un formidabile Kirk Douglas o ancora ricordando il canto del cigno di Elia Kazan con un cast stellare The Last Tycoon (Gli ultimi fuochi, 1976), tratto dall’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald ed ispirato alla vita di Irving Thalberg, il celebre produttore della Metro-Goldwyn-Mayer, la più potente delle Major di Hollywood.
E, infatti, alcuni dei nomi che abbiamo citato si ritrovano ovviamente anche in questo Mank , ad esempio quello, appunto, del producer Irvin Thalberg o ancor di più quello dell’attrice Marion Davis (per altro splendidamente interpretata da Amanda Seyfried nel film di Fincher) che, oltre a essere stata una importante interprete soprattutto nell’era del Muto, fu l’amante del magnate dei giornali (e produttore) William Randolph Hearst, ormai noto alla Storia come il famigerato Kane nel film di debutto di Orson Welles. Si è già citato più volte il capolavoro wellesiano ma non è la prima volta che la genesi di questo film capitale sia stato oggetto di trattazione cinematografica: così in The Battle over Citizen Kane (1996) lo splendido (ma anche contestato da alcuni) documentario di Michael Epstein e Thomas Lennon; così nel modesto tv-movie RKO 281 (1999) di Benjamin Ross con Melanie Griffith, Liev Schreiber e John Malkovich, un Reader’s Digest popolare (ma senza grandi pretese) sulla nascita travagliata e perigliosa di Quarto potere .
A sei anni di distanza da L’amore bugiardo - Gone Girl (2014), David Fincher, riprendendo in mano una sceneggiatura scritta illo tempore dal padre Jack Fincher, ci narra insieme la genesi di Citizen Kane e la storia - tramite una struttura ad incasti e flash-back tipica del film in questione - dello Studio della MGM e della Hollywood durante gli anni Trenta del secolo scorso. La particolarità e l’originalità, però, di Mank sta nel fatto che si concentra tutto o quasi sulla figura spesso misconosciuta dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz (per altro fratello maggiore del regista e produttore Joseph L. Mankiewicz molto più noto oggi), giornalista, critico teatrale e figura molto stimata per le sue grandi qualità di sceneggiatore nell’ambiente cinematografico del tempo. Progressista (aveva sostenuto la sfortunata campagna dello scrittore socialista Upton Sinclair per diventare governatore della California nel 1934), antinazista (veniva da una famiglia ebraica) ma anche alcolista e giocatore d’azzardo, Mank per un certo periodo ha potuto conservare nell’ambiente e nella MGM dove lavorava, il ruolo del castigamatti e dell’artista tutto genio e sregolatezza che ricevette, infine, l’oscar per la sceneggiatura di Quarto potere , e poi, come si dice in un cartello finale, smise o quasi di lavorare (cosa non del tutto vera) morendo alcolizzato a 55 anni, nel 1953, in una trappola per topi “costruita da me stesso”.
Con l’aiuto della bella fotografia in bianco e nero di Erik Messerschmidt (niente, però, in confronto a quanto aveva fatto due anni fa Alfons Cuarón in un’altra produzione targata Netflix, lo splendido Roma ), David Fincher costruisce una biopic alcolizzata che copre dieci anni della vita del suo eroe ma solo a tratti riesce a funzionale. E ciò grazie soprattutto alla eccezionale bravura degli interpreti e soprattutto, nei panni del protagonista, di Gary Oldman, un attore che in tutte le sue performance riuscirebbe a spremere il sangue dalle rape. Tuttavia in questa breve storia della Hollywood degli Trenta che mischia elementi romanzati a quelli veri (sull’argomento, per non ripetere cose già dette, il lettore può consultare utilmente il seguente articolo del “Post” https://www.ilpost.it/2020/12/05/ma...) sono soltanto belle le scene madri come quella molto lunga in cui il protagonista si presenta completamente ubriaco in casa di William Randolph Hearst (e Marion Davis) e in una tirata shakespeariana (ma citando il Don Chischiotte di Cervantes a cui Mank si sente affine) inveisce contro la tavolata dei presenti che si allontano uno ad uno, penosamente.
Tuttavia quello che, per noi, invece, molto meno funziona, è la ricostruzione tra il farsesco e lo stereotipato degli altri personaggi storici (Louis B. Mayer, il tycoon della MGM, i produttori John Houseman e Irvin Thalberg, il fratello Joseph o lo stesso Hearst) e in primis la rappresentazione da baraccone della realtà e del funzionamento degli Studi di Hollywood. Così anche il povero Orson Welles viene in pratica ritratto come quasi fosse soltanto un truffatore che voleva obbligare a togliere il nome di Mankiewicz dai titoli di testa.
Ora non si tratta di accusare Fincher di un delitto di lesa maestà, quanto del fatto che in questo modo si suggerisce allo spettatore di oggi, magari non addentro alla questione, l’idea (sbagliata) secondo cui il merito principale del celebre Quarto potere non vada al genio wellesiano che ha rivoluzionato la messa in scena nel cinema americano, quanto piuttosto alla sceneggiatura che il regista ha poi utilizzato. Ora dare a Cesare quello che è di Cesare, dare a Dio quello che è di Dio, sarebbe stato, anche per cenni, utile, necessario per sottrarsi ad una ricostruzione convenzionale e manichea, questa volta però al contrario: Mank il buono che, dal suo letto dove giace con i postumi di un incidente automobilistico, scrive una sceneggiatura perfetta, meravigliosa – Welles, viceversa, l’enfant prodige del “Mercury Theater”, un cattivone che si approfitta biecamente della situazione. Ed è quello che purtroppo David Fincher fa, subendo così, anche lui, le regole tradizionali e polarizzanti del cinema mainstream - senza zone di grigio. Troppo facile giocare in questo modo, così come aveva fatto (anche peggio) Hazanavicius con Jean-Luc Godard. Per me, dunque, e a malincuore, solo due stelle di valutazione ma non ho dubbi che ad altri questo film potrà piacere o persino lo considereranno un capolavoro (si veda qui sulle nostre pagine http://www.close-up.it/mank-perche-si).
Mank - Regia: David Fincher; sceneggiatura: Jack Fincher; fotografia: Erik Messerschmidt; montaggio: Kirk Baxter; scenografia: Donald Graham Burt; musica:Trent Reznor, Atticus Ross; interpreti: Gary Oldman (Herman J. Mankiewicz), Amanda Seyfried (Marion Davies), Lily Collins (Rita Alexander), Charles Dance (William Randolph Hearst), Arliss Howard (Louis B. Mayer), Tom Pelphrey (Joseph L. Mankiewicz), Sam Troughton (John Houseman), Ferdinand Kingsley (Irving Thalberg), Tuppence Middleton (Sara Mankiewicz), Tom Burke (Orson Welles); produzione: Ceán Chaffin, Eric Roth, David Fincher, Douglas Urbanski; distribuzione: Netflix; origine: USA 2020; durata: 131’.