Mank (Perchè Sì)
HERMAN DELLA MANCIA
Sei anni dopo Gone girl – L’amore bugiardo, David Fincher torna – e, purtroppo non sul grande schermo! – con Mank, ovvero un corposo e audace finto biopic, non sulla vita, ma sull’impresa titanica, gloriosa e minacciata da ogni tipo di ostacoli, di cui fu autore Herman J. Mankiewicz, brillante scrittore che soffiò inchiostro vitale su quelle pagine bianche che divennero la sceneggiatura di Quarto potere (Citizen Kane, 1941), pietra angolare del cinema tutto, diretto da Orson Welles, uno che non ha di certo bisogno di presentazione alcuna. Mentre Herman J. Mankiewicz a quanto pare sì, considerata la fama del ben più noto fratello Joseph – storico regista e produttore. E Fincher, rispolverando, completando e modellando uno script del padre Jack, divenuto negli anni un vero chiodo fisso, si inabissa nelle pieghe della storia del cinema, per riportare alla luce di un bianco e nero sentimentale, il lato più sconosciuto – o, quantomeno, sottovalutato – della gestazione di un’opera d’arte immensa e inarrivabile. Così com’era immenso e inarrivabile il genio, sia di Herman, sia di Orson, che consegnò Quarto potere ai posteri.
Autore raffinato e oscuro, Fincher si è più volte cimentato con soggetti complessi e delicati: con The social network è riuscito a realizzare un affresco quasi nichilista sul potere del capitalismo nel XXI secolo, sfruttando come un abile prestigiatore la “favola americana” del giovane e brillante studente Mark Zukerberg; in Se7en ha riscritto le coordinate del thriller “moderno”, rendendo di colpo stantìo tutto quello che si aveva l’ardire di considerare moderno, grazie a una grande, piccola rivoluzione di genere, abile nel coniugare alla perfezione estro autoriale ed esigenze mainstream; e si potrebbe continuare fino a citare ogni tassello della sua non troppo lunga filmografia, ma ciò che conta è l’utilizzo che Fincher ha fatto e continua a fare del corpo “fisico” dei suoi personaggi su pellicola, puntualmente messo in contrasto con la forza soverchiante della storia da lui stesso narrata.
Così accade anche in Mank, al di là delle scelte di romanzare fatti ormai più che digeriti dalla storia del cinema – probabilmente l’unico difetto del film sta nella scelta di trattare il mito di Welles alla stregua di un elemento “contrario” e di fastidio per il lavoro di Mankiewicz, mentre questo Welles catalizza l’attenzione ogniqualvolta viene alimentata come una fiamma nera quell’aura un po’ demoniaca, un pò sorniona, tipica di quelle figure quasi ingombranti, che ammiccano anche volontariamente per stuzzicare la fantasia e l’opinione altrui. Romanzare, per l’appunto.
Fincher costruisce a un ritmo non regolare, ma cadenzato da flashback montati ad arte per richiamare senza alcun sotterfugio la massima opera wellesiana, un film che vive e si alimenta della figura claudicante e quasi invadente di Herman J. Mankiewicz, che è poi Gary Oldman, ovvero uno di quegli attori in grado di bucare lo schermo quando il film non è nemmeno iniziato; e questo Mankiewicz alcolizzato e intrappolato in un sistema nel quale non si sente a suo agio, appare piano piano eroico e coraggioso come un modello shakespeariano, o un emule raffinato e più consapevole – e per questo più infinitamente triste – del Don Chisciotte di Cervantes. Il corpo di Oldman/Manchiewicz contro le storture della storia sfavillante della terra dei sogni hollywoodiana; il cinema sempre a suo modo provocatorio di Fincher, che assume una valenza politica, accusatoria, destinata a lasciare il segno. Perché se è vero che è criticabile la decisione di lasciare il burbero Welles nel lato oscuro della storia, non è altrettanto mai facile prendersi la responsabilità di osare tanto. Ma Mank non è un film concepito per declinare in negativo ciò e chi la storia ha reso grande, ma un’opera intenzionalmente votata a mostrare come il cinema – e l’arte tutta – non possono essere in alcun modo scisse dalla personalità, dall’ego e dalle esperienze di vita dei suoi protagonisti e di chi il cinema lo ha reso arte stessa.
Perché non esisterebbe Mank senza Quarto potere, così come non esisterebbe Quarto potere senza Herman J. Mankiewicz e, ovviamente, Orson Welles. E se di fronte un primo piano di una bottiglia vuota che scivola da una mano abbandonata, torna alla mente una sfera di vetro con la neve, a cui capita la stessa sorte prima di infrangersi per terra; o se due signori dai destini e dai caratteri inconciliabili, che avanzano inesorabili, ripresi da una carrellata, lungo corridoi degni di una cattedrale, ci ricordano le pene e il lento incedere di un’anima tormentata alle prese con i propri fantasmi, nulla di tutto questo accade per puro caso: è il cinema che riemerge dalla storia, che si fa storia e si rigenera a "nuova vita". Ma non per morire – perché non è mai morto e mai lo sarà: piuttosto, per raccontare il volo e la rovina, le ossessioni e la follia di tutti coloro che non possono vivere senza. Come Hollywood e i sognatori; come le stelle e le comparse; come Mankiewicz e Welles; come Fincher e suo padre.
Mank - Regia: David Fincher; sceneggiatura: Jack Fincher; fotografia: Erik Messerschmidt; montaggio: Kirk Baxter; scenografia: Donald Graham Burt; musica: Trent Reznor, Atticus Ross; interpreti: Gary Oldman (Herman J. Mankiewicz), Amanda Seyfried (Marion Davies), Lily Collins (Rita Alexander), Charles Dance (William Randolph Hearst), Arliss Howard (Louis B. Mayer), Tom Pelphrey (Joseph L. Mankiewicz), Sam Troughton (John Houseman), Ferdinand Kingsley (Irving Thalberg), Tuppence Middleton (Sara Mankiewicz), Tom Burke (Orson Welles); produzione: Ceán Chaffin, Eric Roth, David Fincher, Douglas Urbanski; distribuzione: Netflix; origine: USA 2020; durata: 131’.